Con tanto amore, Mario.
di e conPaola Tintinelli

Mario è un nome comune per un uomo comune,
Mario è un ex postino che vive il momento finale della vita

o forse dà fine ad una “vita” per ricominciarne un'altra nuova.
E’ uno spettacolo muto e in bianco e nero.

Il titolo richiama una canzone di Mario Abbate utilizzata nello spettacolo

insieme a canzoni di Enzo Jannacci, di cui  amo la poesia,

e una radio che trasmette  previsioni del tempo.
Non lo definirei spettacolo...è come un block notes,
sono annotazioni, di problemi brucianti, di idee, scoperte, invenzioni,

progetti, concezioni, partiture, materiali, attività parallele…
…lettere, giornali, calendari, indirizzi date, mappe di viaggio, incontri…
…niente...
La storia è “una” storia, mille storie, la mia storia.
Il luogo è una stanza, un angolo di una strada, un armadietto…l’anticamera della morte.
"Sei pronto?
Mai
Lì con mille oggetti…Non servono a nulla
…e neanch’io...

Sono oggetti
…e anche io..."
Poi c’è l’uomo… un corpo umano… un fragile e poetico imballaggio
dello scheletro della morte e della speranza di durare fino al giudizio universale…
….non pronuncia una parola muto e vuoto come una tomba,
rende pubblico ciò che nella vita dell’individuo c’è di più segreto
che contiene in sé un valore supremo
che al mondo può apparire ridicolo, piccolo, una miseria.
L’arte trae quella miseria alla luce del giorno.
…che cresca e governi !

 Lo speettacolo è stato fatto in piccoli teatri tra Toscana, Emilia e Campania,all’università occupata di Bologna, in un garage a Sesto, in una osteria di Roma, in una cascina a Stradella, durante un Aperilive a Milano,  per strada…..
La mia gratitudine e riconoscenza vanno a Giulietta Masina e Fellini per La strada e I Clowns, a De Sica per Miracolo a Milano e Il Giudizio universale,  a Totò, Buster Keaton e Charlie Chaplin per essere esistiti, a S. Beckett ,  a T. Kantor pittore e uomo di teatro. ai miei ex colleghi postini che resistono a 40 anni di marciapiede.

SCHEDA TECNICA

 da Dramma.it 2014

Con tanto amore, Mario


Cologno Monzese, TEATRO la BOTTEGA di ITINERARIA
21 Febbraio 2014


Scritto da Angela Villa   

Mi sono ripromessa di narrare in poche righe mondi sconosciuti: piccoli teatri, delle piccole cittadine, ai confini della grande città. Teatri che non ricevono finanziamenti, che vivono della generosità del pubblico e soprattutto della sua volontà di uscire di casa. TEATRO la BOTTEGA di ITINERARIA a Cologno Monzese periferia Nord Est di Milano. Si entra in una piccola saletta dove c’è la cassa, Marta Galli, direttrice della produzione ARTE VOX, ti accoglie con un sorriso luminoso sembra di entrare in un appartamento e in effetti in un angolo a destra troneggiano due cassettoni inizio Novecento, orgogliosi della loro storia. Poi arriva Fabrizio De Giovanni, (dal 2005 a oggi ha collaborato a tutte le nuove produzioni di Dario Fo sui Maestri del Rinascimento e alla nuova edizione del “Mistero Buffo” che ha girato l’Italia nella stagione 2011/2012.E’ tra i fondatori della Compagnia teatrale ITINERARIA con la quale ha preso parte, dal 1994, a tutti gli spettacoli prodotti. Autore di testi di teatro civile) si ferma a chiacchierare per un po’ e torna dentro: deve finire di preparare il sugo... Sì, perché dopo lo spettacolo ci si può fermare a mangiare, si incontrano gli artisti, fra un piatto di pasta e un buon bicchiere di vino. Tutto compreso nel prezzo, direbbe qualcuno. Nella piccola sala teatro mentre aspetti che inizi lo spettacolo, puoi leggere qualche pagina, sugli scaffali libri usati, manuali di letteratura, saggi, romanzi, opere di teatro. Poi la luce si spegne e arrivano gli artisti. Questa sera tocca alla Compagnia AstorriTintinelli il loro manifesto artistico recita “Siamo refrattari, ribelli, sopravvissuti in arte di divinazione, siamo quelli che si sono sottratti a tenere il passo. Siamo pezzi d’iceberg che si sono staccati e galleggiano nelle acque nere della notte. Ce ne andiamo in silenzio tra ultime cene, souvenir, intervalli ricreativi e blues della solitudine. Sogniamo amori portentosi e universi fantastici, ma diamo vita al nostro concerto di inferni.” Promesse ben mantenute nel monologo in scena. Lo spettacolo è un assolo per corpo, gesti, sguardi, e oggetti. La drammaturgia è negli occhi di Paola Tintinelli, nelle espressioni del viso, nell’impianto scenico che si prospetta come un’allegoria della vita, spazi e tempi differenti sono rappresentati come se fossero usciti da un fumetto, emerge un universo fantastico e immaginario, espressione del mondo interiore del protagonista. Nessuno parla ma i silenzi sono carichi di significato. Paola racconta la storia di uno qualunque, Mario, un piccolo uomo, i suoi sacrifici, il suo lavoro, i suoi desideri, il suo funerale. Un non luogo anima la scena, potrebbe essere una strada, una casa un ufficio, la vita di Mario scorre nella sua agghiacciante monotonia, la vita gli ha regalato poco, ma in lui c’è tanto, un’anima tenera, c’è desiderio di amore, c’è la semplicità dei vinti. Inserti musicali diffusi da giradischi gracchianti e tracce audio che alludono ad altre voci, dialogano con l’artista in scena, nel finale un omaggio a Enzo Jannacci. Paola Tintinelli con effetti di sorpresa e straniamenti carichi di intensità, si ispira al teatro circo, al mimo, a figure del cinema muto, tuttavia in certe espressioni in certi movimenti fa venire in mente il nostro Calimero, piccolino tutto nero, ma carico di umanità.

da Histryo 2/2016


Con tanto amore, Mario

Il silenzio pieni di voci di Paola Tintinelli


di Michele Pascarella

 «Ogni suono e ogni cosa hanno il proprio silenzio, come sulle alture a mezzogiorno c’è un silenzio dei galli, un silenzio dell’accetta, un silenzio dei grilli»: nelle note flâneur di Walter Benjamin echeggiano i proteiformi silenzi pieni di voci di questo minuscolo, prezioso allestimento, nel quale un’attrice esile e potente evoca per surreali frammenti la giornata-vita di un ex postino. Con tanto amore, Mario è costituito dalla giustapposizione paratattica di azioni propriamente elementari: sollevare, spostare, spingere, ascoltare, giocare, mangiare, guardare, gettare, raccogliere, stare. Una serie di gesti feriali ed evanescenti che, grazie alla precisione e alla densità di questa artista minuta e possente, assumono la forza dell’oggettività, finanche dell’universalità: nella sperduta espressività del personaggio incarnato da Paola Tintinelli risuonano un essere soli al mondo e un senso di orfananza che rendono chi guarda l’unico e il primo spettatore. Scevra da ogni deriva sbrigativamente nichilista, una figura muta e malinconica in pantaloni da uomo, camicia chiara, bretelle e cravatta allestisce e abita con mal dissimulata goffaggine una scena-casa-ufficio, incarnando e rilanciando la dialettica fra diverse polarità: maschile e femminile (come non pensare all’androgina Claude Cahun), costruzione e distruzione, ordine e disordine, ilarità e mestizia. Con esibita noncuranza, lo spettacolo propone una destrutturazione “dall’interno” della forma-dramma: nell’apparente rispetto dei suoi statuti (plot, personaggio, set, …), passa «dal dramma-della-vita al dramma-nella-vita». Con tanto amore, Mario non presenta, infatti, grandi azioni organiche, giornate fatali o vicende memorabili, ma una desolata condizione che copre l’intera esistenza. A sigillo della vicenda umana di questo anonimo protagonista “senza qualità” è esposta per intero, a mo’ di didascalia, l’omonima canzone di Enzo Jannacci: «Mario, non ti resta che l’amore. Mario, non ti resta che ascoltare». Chapeau.

PROMO

da Milano Teatri


“Con tanto amore, Mario”


di Danilo Caravà

19 Aprile 2019

Paola Tintinelli ha la capacità di farsi esplodere Dioniso negli occhi, e di conservare, costante come la stella polare, lo sguardo dei fiori di Cioran, sconcertati e sconvolti dalla presenza umana. Incarna la vita di un travet senza un filo di grasso verbale, facendo sentire allo spettatore il rumore della carne scavata dal tarlo dall’implacabile tic tac del tempo. Come ricorda Buster Ketaon, ha ben presente che il silenzio è degli dei, e lo diventa anche lei un piccolo dio, un dio della Bovisa, ed insieme l’uomo che che trasforma la sua quotidianità nella lama affilata della hybris, per tagliare la gola a tutti i rassegnati, metafisici “così sia”. La sua maschera tragica sembra plasmata da mani definitive, demiurgiche, e quella plastilina esistenziale permette alla platea di sentire distintamente ancora l’odore dell’abitudine che il protagonista, Mario, assume attimo dopo attimo, goccia dopo goccia, per applicare la strategia del mitridatismo nei confronti del veleno del vivere. Sfuggito da una comica della muto, al pari di una scheggia impazzita, ci prova a far stare tutto Dostoevskij nella sua “schiscetta”, ed a girare la testa per vedere che cosa produce le ombre nella caverna di Platone, ma per quanto possa girarla, trova solo la stessa parete frontale.

La ricerca di senso del protagonista è come la mano che prova a toccare il proprio polso, lo sfiora appena, ma non riesce a toccarlo. Eppure si ha la netta impressione che quel sound of silence sia in grado di esploderti dentro, che le parole di Mario siano tutte nella testa di chi sia in grado di ascoltarle, e sono parole che pesano il doppio, perché sono bagnate fino alla radice dalla pioggia incessante dell’anima, da uno spleen che si rovescia sulla coscienza per infradiciarla senza requie alcuna. Una voce lenta, che perde i giri su stessa, annuncia l’uggia universale, la noia baudelariana che è prossima a mangiarsi il mondo e le sue creature, ma il protagonista resiste come il giapponese sull’isola, nel ridotto di resistenza del suo tavolino, del suo magro pasto, e di un lavoro che asseconda il tempo circolare, e si divincola fino a farsi idealmente sanguinare i porsi, per liberarsi da quelle catene prometeiche della reiterazione, con la sola colpa di aver cercato di rubare il fuoco ad un accendino scarico. Intensa e gravida di simbologia come il gesto zen del teatro No, la pantomima della Tintinelli è il pugno costante della Beatrix Kiddo di Tarantino, che cerca di spaccare dal di dentro la bara di legno di un linguaggio teatrale che ha fin troppo ululato alla Luna. Trova il suo satori, la sua illuminazione improvvisa, come la rottura del fondo di un secchio, che è lì tra una camminata in uno spazio domestico, e la voglia di gridare che trasuda dalle membra, ne è una tensione in grado di innervare ogni movimento, ogni tableaux vivant, che cerca di sbattere il tempo contro il muro, urlandogli contro nel più totale silenzio: “adesso ascoltami!”.

Si ride tra il pubblico, ma è una risata che bergsonianamente ha bisogno di anestetizzare il cuore per liberarsi, ha tutto il sapore di una fuga catartica da una tragedia che batte i tacchi dei coturni contro le tavole del palcoscenico fino a scheggiarle, perché siano loro a creparsi prima che sia l’essere umano a crepare. Se si guarda al di là del pirandelliano sentimento del contrario, manca il fiato nel vedersi rovesciare addosso la fatale indeterminatezza del vivere, l’insostenibile pesantezza dell’essere che ci si può scrollare di dosso, almeno per un lungo, lunghissimo istante con un gesto teatrale che, se non rappresenterà la felicità, riuscirà perlomeno a fare il verso a quell’asintoto dispettoso che la curva vitale non sarà mai in grado di incontrare. La Tintinelli riesce a fonosimboleggiare il suo stesso cognome e fa tintinnare le cose, lascia che a parlare sia il rumore degli oggetti, il linguaggio dell’inanimato che si deposita strato strato dopo strato sul fondo del suo viso, che prende a calci di dietro l’Urlo di Munch per piantarsi al suo posto al centro della tela, rimboccandosi le maniche al fine di mostrare cosa sia in grado di fare. Ecco un altro Bartleby delle periferie, uno che oppone il suo ostinato rifiuto, spiato nella sua intimità, quando è solo a far giocare i suoi tarli nella mente per vedere chi è il primo ad arrivare. Anche questo Mario avrebbe preferenza di no, e ce lo comunica con ogni movenza la cui intenzione deviante rende il gesto sofferto, tirato. Festeggia Mario la vita che non vive, sbatte simbolicamente in faccia a Montale, con un certo orgoglio, la sua esistenza vissuta al cinque per cento, recita metodicamente mentre preso dal periglio non sa più quello che fa, eppure veste più volte la giubba, ed ha infarinato la faccia, perché la gente ridere vuole. Gioca scientemente con il meccanismo della tensione-risoluzione musicale tornando reiteratamente con la testina del giradischi sull’incipit de” La gazza ladra”, per dipingere un impossibile sorriso esistenziale sul proprio vivacchiare, per illudersi di poter orgasmare più e più volte, sulla ripida scala del crescendo rossiniano. E quando il protagonista mette in scena la propria dipartita, e fa del suo totem impiegatizio, l’armadietto, la propria bara, getta gli ultimi sguardi disperati verso la platea, lascia kantor in un cantone, insieme al nano da giardino, e sembra comunicare la stessa speranza vergata da Frida Kahlo di non tornare mai più, si avverte il desiderio che possa rinascere di lì a pochi istanti per poterlo abbracciare fino a sentire la forma delle sue ossa, e si riesce a farlo allungando le mani e sonorizzando il più possibile gli applausi.

VIDEO


Articolo pubblicato su Lo sbuffo.


“Con tanto amore, Mario”

di e con Paola Tintinelli

29 marzo 2017

di valivi

Sabato 25 marzo La dual band –qui-, un piccolo teatro situato nel passante di Porta Vittoria, ha presentato Con tanto amore, Mario di Paola Tintinelli, della compagnia Astorri/Tintinelli – qui.

La coppia Astorrintintinelli è composta da Alberto Astorri e Paola Tintinelli, ma durante lo spettacolo il palcoscenico è stato calcato solamente da quest’ultima. La compagnia è stata fondata nel 2002, quando i due attori si sono incontrati al Festival di Santarcangelo di Romagna.

Mario è un uomo comune, di professione postino e l’opera ne presenta la malinconica esistenza: il personaggio timbra e consegna la posta, festeggia Natale e Capodanno, gioca con gli oggetti trovati in alcuni pacchi postali, fa l’amore, mangia e infine, come tutti gli esseri umani, muore. Il senso di solitudine che trasmette l’esistenza di Mario si alterna a momenti di esilarante comicità grazie alla mimica di Paola Tintinelli, unica attrice in scena nel ruolo del fantozziano postino.

Lo spettacolo è muto, la sua comicità si fonda essenzialmente sulla gestualità di Paola. A differenza dei film parlati tuttavia troviamo alcuni elementi sonori: i rumori di scena, in primis il rumore dell’armadietto del postino che sbatte, il suono di un campanello, le scarpe pulite sullo zerbino, la sega che incide il corpo di un piccolo Big Jim; troviamo inoltre un’incredibile varietà di colonne sonore, come Con tanto amore di Mario Abbate, Mario di Enzo Jannacci, Sul bel Danubio blu di Johann Strauss e la colonna sonora di Arancia Meccanica nella versione strumentale. I vari capitoli della vita di Mario sono scanditi da una radio che trasmette le previsioni del tempo, nelle cui parole è racchiuso il senso dei gesti compiuti da Mario.

Paola Tintinelli è una simpatica signora bionda che per l’occasione si è trasformata in un uomo sino a rendersi irriconoscibile: indossava parrucca corta scura, aveva un filo di barba realizzata con il trucco e un completo nero. Tuttavia ciò che più dei vestiti ha contribuito alla metamorfosi è stata la mimica, infatti l’attrice ha curato con estrema precisione la gestualità sino a trasformarsi completamente in un uomo. Anche quando è rimasta in biancheria intima in una scena dell’opera, nonostante la parziale nudità rivelasse la natura femminile del suo corpo, era facile dimenticarsi di Paola e credere di osservare semplicemente Mario, il postino. Ciò che più colpiva erano lo sguardo duro e penetrante del giovanotto, la rigidità della mascella e la camminata virile. L’opera offre una buona occasione per riflettere sul ruolo del corpo nel teatro e sull’importanza della gestualità.

La scenografia era piuttosto semplice: un tavolino su cui timbrare la posta o mangiare; un armadietto in cui contenere gli attrezzi del mestiere da postino, ma che con la fantasia può trasformarsi nel corpo di una donna con cui avere un amplesso o in una bara; una cassetta della posta completa di campanello, zerbino e nano da giardino, un giradischi e un lampione. Sono invece molto numerosi gli oggetti  di scena, necessari per le gag comiche, che  comprendono anche costumi per il cambio d’abito in scena e cibo vero e proprio, consumato dall’artista durante lo spettacolo e talvolta offerto agli spettatori.

Lo spettacolo si conclude con la morte di Mario, trasmettendo un senso di malinconia che contrasta piacevolmente con l’ilarità dovuta alle gag comiche. Tale tema è trattato tuttavia con leggerezza e ironia, lasciando presagire che la fine di Mario non è un vero e proprio addio. Dopo aver riposto tutti gli oggetti di scena nell’armadietto sdraiato a terra come se fosse un sarcofago, Mario estrae un altarino con scritto il titolo dello spettacolo e su cui pone un cero e un fiorellino. Il personaggio infine saluta il pubblico e entra lui stesso nella bara.

Al termine dello spettacolo la compagnia La dual band ha calorosamente accolto il pubblico offrendo un piccolo rinfresco in omaggio a base di zuppa. L’ambiente allegro e informale stato essenziale per rendere indimenticabile la serata.

E non disse nemmeno una parola

 di Luca Scardigli - 1 giugno 2019

PISTOIA. Anche una sillaba sarebbe stata superflua, di troppo. Paola Tintinelli non ha bisogno di parlare; al diaframma, alla favella, al suono delle parole le corrono in soccorso un corpo disegnato da un writer vegano, ma ubriaco, una faccia da cartoon e una testa disallineata. Mario, poi, il postino, sul palco della Segheria, a Pistoia, la domus degli Omini, non ha davvero bisogno di dire nulla: la sua vita è incartapecorita nel suo lavoro e questo si riduce, con commovente orgoglio, a un armadietto, custode dei suoi ferri del mestiere, oltre che delle sue aspettative: la borsa che ospita la corrispondenza, meticolosamente e chapliniamente timbrata prima della consegna; il manubrio della bicicletta (il resto del mezzo è immaginabile), la divisa da postino, ma anche la ciotola per il rancio della pausa pranzo, scandita, all’inizio e alla fine, da un campanellino che lui stesso aziona; un thermos per le vivande, alcuni bonsai che colorano e impreziosiscono la sua solitudine, ma anche un panettoncino natalizio, una bottiglia, mignon, di spumante, una bandierina artigianale che segna l’approssimarsi e la consumazione delle festività natalizie, salutate da una girandola e piccoli e innocenti mortaretti.

C’è anche lo stuoino verde, la cassettina delle lettere fuori dall’abitazione, come se fosse quella di una villetta ai piedi delle Tofane e un orsacchiottino da benvenuto. E una sveglia, che scandice l’inesorabilità del tempo e la sua fortuna, perché prima riuscirà a decomporsi, meglio sarà. Per lui. Mario non lavora per vivere; Mario vive per lavorare. A supporto e corollario della sua esistenza, invisibile, più che grama, un po’ di musica, che fuoriesce da un giradischi e una stazione radio, dai contenuti afgani: notizie burrascose e un bollettino meteo che sa di catastrofe, voce che arriva da un altoparlante attiguo ad uno specchio posto, abitualmente, agli incroci pericolosi, per avvertire gli automobilisti e i postini, naturalmente. Tutto qui, in uno spazio angusto, più che ridotto, che è la conditio sine qua non della Segheria di Sant’Agostino, un centro di resistenza e resilienza, popolata da cast non contemplati dai circuiti, ma solo perché disadatti ad ambientazioni fuori stagione, che diventano, prima e dopo la loro esibizione, parte del popolo spettatore. Siamo negli ultimi avamposti della zona industriale di Pistoia, oltre l’ultima rotonda, dove il lavoro del ‘900, la fabbrica, le imprese, le banche, ritorno alle occupazioni del secolo precedente, quello dei campi. La Segheria è lì, un posto non contemplato non solo da GoogleMap, ma anche dai passatempi canonici, nottibianche comprese. Ieri sera, prima e dopo la performance di Paola Tintinelli, conclusasi con un'autosepoltura, nel patio cementato della Segheria, dove ci sono poltrone, sedie, posacenere, cestini per raccolte differenziate e addirittura un bocciodromo, la Direzione artistica dell’Associazione ha anche allestito una sorta di apericontro, con cocktail improbabili, carote ammorbidite dal calore e le immancabili uova sode, che hanno comunque riscosso un dignitosissimo favore. La musica è stata quella scritta da Mogol, soprattutto per Lucio Battisti, personaggio quest’ultimo recuperato e reso alla poesia solo post mortem. A quel crocchio inincorniciabile della Segheria, ieri sera, Mario, è comunque riuscito a recapitare la corrispondenza, nonostante su quest’ultima non ci fosse il numero civico, ma nemmeno l’indirizzo. Trovarli, però, non è stato difficile; il sabato sera, a Sant’Agostino, c’è posto solo per i lavoratori sfruttati dell’Answer, le prostitute di colore che si accontentano di poche decine di euro e per questo si nascondono e per Gli Omini, che stanno in fondo, dopo l'ultima rotonda.

da SaltinAria 2015


Con tanto amore, Mario


Scritto da  Caterina Paolinelli


La compagnia AstorriTintinelli ripropone all’interno del Festival Città Balena presso il Teatro i di Milano, il suo spettacolo cult "Con tanto amore, Mario", suggestivo e ricco di poesia, che vede in scena solo una dei due componenti del gruppo: Paola Tintinelli.

La storia è quella del dolcissimo Mario (Paola vestita da uomo) che arriva in questo mondo, che è la scena, descritto con pochi e precisi elementi. C’è un armadietto di ferro che racchiude tutto quello che serviva a Mario quando faceva il postino: il sacco delle lettere, un manubrio di bicicletta, un tavolo, una sedia, lettere, un timbro postale. C’è uno zerbino verde, una buca per le lettere e al centro della scena, sul fondo, un palo con appesi un altoparlante e uno specchio stradale. E così Mario inizia piano piano a costruirsi il suo mondo.

Come un Piccolo Principe ormai invecchiato sul suo asteroide B612, anche Mario ha tutto quello che gli serve lì, fatto su misura per lui: gelati in miniatura per l’estate e panettoni mignon per festeggiare il Natale. La storia si sviluppa tutta nel silenzio, cioè Mario non parla, ma si racconta e segue il filo degli eventi attraverso la musica di un grammofono gracchiante e di dischi rigati e monotoni e le incursioni spesso ciniche e violente dell’altoparlante che descrive il mondo e gli esseri umani come un luogo dove il pessimismo, la malinconia e una strana malattia che contagia tutti, rendono ogni essere umano sempre più misero e abbrutito.

Alla fine si sospira e ci si chiede: perché mai siamo a questo mondo? Per soffrire, accoppiarsi e poi morire? E’ questo che vuole dirci la parabola di Mario che alla fine trasforma il suo armadietto porta ricordi nella sua bara? E la sola cosa che ci resta sono i ricordi di un tempo che fu, ma che non ci è mai realmente appartenuto? Sembra essere questa la sintesi racchiusa nel piccolo quadretto, lasciato lì a giacere, con su scritto: “Qui c’era il mare”.

Detta così la questione sembra triste e amara, eppure non è quello che ci resta alla fine dello spettacolo. Tanta dolcezza, il senso di aver accresciuto la dimensione poetica della nostra vita, la voglia di andare a parlare con Paola, detta “la Tinti”, per sapere da dove nasca questo ometto un po’ buffo, il suo Mario. Ovviamente il collegamento immediato è Mario, il postino del celebre film di e con Massimo Troisi, ma poi l’attrice racconta che prima di mollare la sua vita “normale” per il teatro, faceva la postina e che una sera d’estate era al cinema all’aperto e davano “Il postino”; alla fine del film si ritrovò commossa e seduta vicino a una delle persone alle quali portava la posta ogni giorno, non si conoscevano a parte il momento della consegna delle lettere, eppure in quella circostanza, dice Paola, sentimmo la voglia di abbracciarci.

E allora viene da chiedersi se il messaggio di Mario (nome comune di un uomo comune) non sia proprio quello di risvegliare questa dimensione poetica che vive, sopita, purtroppo a volte anche per una vita intera, dentro ognuno di noi e che desidera disperatamente di essere chiamata a dire la sua.


Milano, Teatro i, 15 Luglio 2015