IL SOGNO DELL’ARROSTITO

di e con

Alberto  Astorri e Paola Tintinelli
testi di

Astorri - Tintinelli - Frongia

“altra terra e altro  mare sospiravi" Kavafis


Il sogno dell’arrostito è (vuole essere) “una sintesi di questo Paese”
Sul palco in una situazione surreale un uomo e una donna,

due compagni, due militanti politici, si trovano a dar vita ad un comizio.

Tentano disperatamente di animare una festa dell’umanità nel vuoto d’amore di questo tempo.
L’uno rappresenta la forza delle parole, l’altra la forza del lavoro.
Entrambi credono nell’utopia e nel riscatto per un mondo diverso da quello in cui vivono.
Come afferma Focault il potere mette in atto una mutazione antropologica,

l’uomo è convinto di restare lo stesso e di credere ancora nelle sue idee;

ma in realtà non si accorge di essere passato dall’altra parte

e gli orizzonti si chiudono sempre di più.

L’uomo, facendo così, finisce nel buio.
L’ arrostito nel nostro immaginario è una persona che cuoce lentamente su una graticola e

man mano che sta in società, i roghi del potere lo carbonizzano.

Il sogno del cambiamento si trasforma – come insegna la storia –

in repressione e restaurazione.
I due personaggi volteggiano, si tradiscono

Il cortocircuito che ridarà nuova luce è onirico:

sogno e follia viaggiano sullo stesso binario.

Esiste ancora una sponda ideale a cui tendere?

Chi ha barattato le nostre ali?

 Paola e Alberto

da PAC

Raccolta sogni per arrostiti poetici

5 gennaio 2016
ELENA SCOLARI 

Il sogno dell’arrostito di Paola Tintinelli, Alberto Astorri e Rita Frongia è un magnifico catorcio poetico, un macinino anacronistico che sferraglia sognante come il nostalgico Millennium falcon dell’ultimo Guerre stellari.  [astorri-tintinelli]
Lo spettacolo nasce da un’idea on the road delicata e ostinatamente felliniana: un pulmino Volkswagen (sì, quello della famiglia Bradford, ultimamente tornato di modissima) azzurro e bianco, in viaggio lungo l’Italia si ferma per raccogliere i sogni della gente. Le persone sono invitate a salire a bordo dai due clown Fefè e Fofò e a registrare i loro sogni, in solitudine, su nastri, vecchi nastri magnetici. Alcuni di questi sogni sono serviti da suggestione per l’atmosfera dello spettacolo e forse altri se ne aggiungeranno.

Il lavoro teatrale è però un arrosto farcito, numerosi sono i riferimenti cui gli autori si richiamano: da La pazienza dell’arrostito di Guido Ceronetti («Viaggiare è ormai un’attività da collezionista di ripugnanze. Oggi i roghi di invisibili inquisitori ci arrostiscono con tacita, misteriosa lentezza») al cinema di Elio Petri (se la classe operaia va in paradiso questa classe teatrale va in officina, potremmo dire), dai discorsi surreali di Cesare Zavattini ai quadri di Bruno Caruso, dalle canzoni antisistema di Gianfranco Manfredi fino alle poesie di Federico Tavan, cui lo spettacolo è dedicato.
Non tutti questi immaginari sono leggibili allo spettatore, ad una prima visione priva delle chiacchiere che generosamente A&T regalano dopo lo spettacolo, sui gradini del Teatro della Contraddizione.

I due personaggi in scena, un sindacalista e un’operaia, intessono dialoghi strampalati ma con intenzioni chiare: si mostrano la cattiveria del prossimo, gli slanci utopistici di ideologie fallite, la nostalgia verso un’idea nobile di lavoro, il desiderio di rivolta, l’affetto per un mondo che – forse – ascoltava più di ora. Astorri è un arruffapopolo caldo, sanguigno, romantico, irresistibile. Il compagno che tutti seguirebbero, proprio per la sua geniale sconclusionatezza. Tintinelli è un’operaia operosa, continuamente al lavoro con i suoi macchinari impossibili: frese, motorini, ingranaggi, martelli, un concentrato della ferramenta di famiglia col quale costruisce una partitura sonora che diventa colonna dello spettacolo, una sonorizzazione che sarebbe perfetta per Tempi moderni di Chaplin.
Sappiamo da sempre che Astorri e Tintinelli sono a loro agio tra oggetti sgangherati, scene sbilenche e abiti dall’aspetto traballante, qui abbiamo un florilegio da trovarobato del rimpianto, i due attori si costruiscono (da tempo) un tempo tutto loro, irreale, che abbraccia il pubblico e lo sospinge dove la finzione è più forte di tutto.

C’è umorismo intelligente e molta poesia ne Il sogno dell’arrostito, poesia soffusa in una naïveté commovente sebbene forse eccessiva. Dipende dall’atteggiamento che si sceglie: se ci si lascia andare al rifugio del sogno per riparare allo stritolamento della società attuale (più post-moderna che moderna) si rimarrà pienamente soddisfatti, se invece si cerca una via più… filosofica, più analitica, che cerchi cioè non solo di rifuggire le brutture ma di capire perché oggi hanno così successo (per cercare di sconfiggerle, magari), allora si resterà un po’ inappagati.

Lo spettacolo si chiude con la voce del poeta friulano Tavan che recita un suo verso favoloso, non possiamo non citarlo: “ridatemi l’altalena, voglio toccare il cielo con il culo”. Ma non dimenticheremo nemmeno Alberto Astorri, in mutande, che volteggia “classico” indossando calzini rossi con ricamata la faccia del Che.
Il duo ha una cifra ben precisa, che non muta le proprie caratteristiche, una riconoscibilità inconfondibile che tiene un po’ legati, ma è un conforto sapere che questa coppia artistica saprà tenere alta l’altalena di tutti


da Milano in scena a  cura di Histryo


Il sogno dell’arrostito ovvero povertà e desideri di rivoluzione di due umani
Recensione di: Alessandro Toppi Voto 2.5


Il sogno dell’arrostito inizia con la resa mimica di un film (il sole è un accendino, una bottiglia d’acqua fa da pioggia, la colonna sonora viene dal cellulare) e termina con la proiezione d’immagini familiari anni ’70. Da un lato scorci reali, domestici e consueti (un giardino, un bambino, una donna, un abbraccio); dall’altro un tentativo di racconto ossia un cortometraggio irrealizzato che diventa un’offerta comica. Nel mezzo lo spettacolo, in cui si sente questa frase: “Occorre scavare la membrana che separa la vita dai discorsi sulla vita”.

Ecco: Il sogno dell’arrostito mette in scena la separazione progressiva avvenuta tra la lingua e la realtà, tra l’atto e l’oggetto di testimonianza, tra la vita – intesa come (r)esistenza quotidiana – e la sua rappresentazione. Come? A destra c’è un sindacalista, a sinistra un’operaia: lui è un comiziante, che fa discorsi usando le parole incagliate di un disco di De Andrè e blatera di sogni e di utopie prima di rubare un panino per il pranzo; lei invece lavora, piegata tra i bagliori della fabbrica e il ferro che batte ai timpani; tra di loro uno spazio vuoto, sede d’incontro, di conoscenza e di distacco. I due si osservano, si parlano, si toccano e sembrano coincidere ma è un’illusione: finiranno lontani, soli e indifferenti l’uno all’altra.
In un ambiente semibuio, con pochi oggetti (una sedia, un microfono con cassa, attrezzeria da officina e una candela, simbolo di commemorazione e di speranza) Alberto Astorri e Paola Tintinelli – confermando l’attitudine a un teatro povero di mezzi ma ricco di senso e di visioni – sono bravi nel farsi segno carnale di una metafora che dice molto degli ultimi cinquant’anni di questo Paese e, se merita una messa a punto la drammaturgia (più fragile nella parte centrale), lo spettacolo racconta comunque bene il tradimento, pratico e ideale, esercitato dall’Arte e dalla Politica nei confronti del reale: che sopravvive lì, stanco ma non domo, in attesa di chi lo rappresenti per davvero.



di Tommaso Chimenti

visto  a Siena  il 20 maggio 2016

....

Anche questo “Il sogno dell'arrostito” parte bene, veleggia sicuro, per poi affondare poco dopo, al largo, in assenza di un pensiero al quale si possa dare l'etichetta di drammaturgia. L'idea di fondo sembra esserci, è lo sviluppo che si affossa presto e velocemente e i quadri danno la sensazione del mosaico a tavolino, del lavoro per accumulo e somma dove i guizzi e le aperture si [arrostito] riscontrano difficilmente e con grande fatica si procede verso l'approdo. Gli oggetti anche qui la fanno da padrone (tanti, troppi, offuscanti, abbondantemente inutili), come se la drammaturgia scaturisse dalla necessità forzata di appigliarsi, di chiedere aiuto ad arnesi vari e attrezzi artigianali che inondano la scena.
Non eravamo partiti affatto male, anzi. Mentre il lui di questo duo stralunato e beckettiano leggeva da un foglietto le varie azioni-istruzioni da compiere, lei (visivamente si incastrano fisicamente a meraviglia, lui grosso come Bruto, lei smilza come Olivia) le metteva in atto. L'assurdo prendeva la platea tra sogno e frasi poetiche e la voce di Astorri che sottolineava caldo e il corpo della Tintinelli a creare delicatezza e armonia. Sgualciti e clochard, carbonari e nascosti come appartenenti ad una setta vessata, sembravano essere in una dimensione futura (“Siamo 12 miliardi di persone”) dove, presumibilmente dopo il terzo conflitto mondiale, la tecnologia era regredita ad una sorta di pre-rivoluzione industriale. Sono operai di una ditta dai rumori gutturali (insopportabili e disturbanti, eccessivi, acuti, fastidiosi) e vengono alla mente le battaglie sindacali e i partigiani, Chaplin e Marx: “Qui si onorano i morti per mortificare i vivi”. Renzi e il suo Job's Act erano velatamente chiamati in causa. Dopo quest'inizio accattivante e pieno di senso, qualcosa s'inceppa, nei megafoni, nei suoni molesti e smodati di una gag sommata all'altra senza un vero filo conduttore, perdendo la linea, il fulcro del discorso, il centro dell'idea iniziale.

...

da il Pickwick.it

Giovedì, 01 Dicembre 2016

"Il sogno dell'arrostito". Una lettura politica
Scritto da  Alessandro Toppi

Premessa
Federico Tavan fu il poeta dei perdenti, della gente senza storia, di quelli che prendono pedate; fu il cantore di uomini e donne che hanno il freddo nelle mani, la febbre nella testa, il silenzio nella voce e la fatica nei piedi, gelate lacrime sul volto e l'inverno nei coglioni. Anarchico, egocentrico e povero diavolo, Federico Tavan su poeta per fato: sempre ad un grammo dalla felicità, Tavan raccontò gli ultimi, i matti, i disperati, i depressi, gli aspiranti suicidi e gli sconfitti: Tavan raccontò se stesso.

Scrisse usando il dialetto di Andreis − nulla a che vedere con l'italiano nazionale né con un friulano di maniera, fin troppo usato in poesia e letteratura dopo quello sincero di Pasolini − e dunque scrisse in una lingua vera, una lingua viva, che è lingua di cose e di natura, che sa di terra e di cielo, di calli e di ferite: lingua di calabroni, cavalli, passeri, ciclamini e usignoli, lingua di lucciole, lingua di nuvole, lingua di temporali e di strade, lingua di bambini, lingua di aquiloni, lingua di arcobaleni. Lingua che è diversità, lingua che è resistenza perché lingua non omologata né omologabile, ché Federico Tavan − pensando proprio a Pasolini − sapeva bene che l'omologazione è stata la più riuscita rivoluzione di destra, in questo Paese, e che si è dichiarata ed affermata quando la lingua ha rinunciato al rapporto con la natura e con le cose, con gli uomini che hanno perduto, con le donne della strada.

Ebbene. Ho il sospetto che la poesia di Federico Tavan sia lo scheletro de Il sogno dell'arrostito, che i suoi versi siano il retro segreto di questo spettacolo: un contenuto protetto dalla luce, tenuto in fondo, stipato nel buio, fatta eccezione per qualche istante. C'è Tavan forse nel volto e nel corpo un po' matto di Ornella/Paola Tintinelli: nel modo infantile in cui stringe i pugni all'aria, in qualche suo ghigno, nel morso dato a un panino, nel sudore della fronte, in questa innocenza recitata (che non le va via neanche quando si toglie la parrucca, mostrando capelli corti e spettinati); c'è Tavan nell'abbandono che subisce il suo personaggio, nella solitudine che lo contraddistingue, in questo stare in un cantuccio laterale. C'è inoltre Tavan nel dialetto, che emerge per un attimo, e c'è − Federico Tavan − nell'uomo (Alberto Astorri) che danza in un taglio di luce blu, libero ossia pazzo (o se preferite: pazzo, dunque libero) prima di sparire per sempre.

Tuttavia in questo rapporto tra la poesia di Tavan e lo spettacolo c'è una corrispondenza (una "connessione intersiderale") che non merita d'essere banalizzata in un articolo e che, ammesso che io abbia anche solo un po' di ragione, necessita che rimanga celata, non spiegata in alcun modo, lasciata da scoprire e approfondire allo sguardo degli spettatori. Allora provo a interpretare Il sogno dell'arrostito non guardando al suo interno più profondo ma mettendolo in relazione con l'esterno: col Paese, coi suoi tempi, con certe sue parole.
Una lettura politica, dunque; una delle possibili con cui intendere la messinscena.

"Compagni"
Il primo termine che Aldo usa è “compagni” e lo usa al microfono, fissando un orizzonte immaginario che coincide con la platea del teatro. Aldo dice “compagni” ma la sensazione e che stia parlando a e per se stesso, al cospetto di un vuoto, verso qualcuno che non c'è e che non importa neanche che ci sia. Aldo dice “compagni” ma forse questo “compagni” non è che una formula, la maniera più semplice per cominciare a dire, un guscio senza contenuto e a dimostrarlo sono i discorsi che seguono: “compagni” e poi un insieme di frasi prive di linearità e di logica, che hanno per incipit le canzoni di De André, incagliatesi nel giradischi, e per uditorio qualcuno che non esiste.

Aldo dice “compagni” stando nella parte sinistra del palco mentre Ornella invece è a destra: la schiena curva, le ginocchia piegate, lo sguardo in basso, le mani stringono gli strumenti di lavoro: Ornella è un'operaia. Ornella se ne sta tra accenni scenografici in acciaio, alluminio e ruggine che servono a rappresentare una fabbrica; batte ferro a ferro, gira, martella, insiste, manipola mutando il ritmo dell'azione, sovente accelerandolo – durante lo spettacolo – e così produce una partitura sonora che aumenta di intensità e di volume e che, per me, ha almeno tre funzioni: misura il crescente sfruttamento lavorativo cui è sottoposta; definisce esternamente la rabbia interna che sta accumulando durante (durante lo spettacolo, cioè nel corso della vita); fa da contrapposizione battente ai discorsi insistenti di Aldo. “Compagni” ripete lui? Il ferro batte di nuovo, per mano di lei: come a non poterlo/a non volerlo sentire (più).

Uno sta a sinistra, l'altra sta a destra; l'uno guarda in avanti mentre l'altra lavora a testa china; l'uno parla a chi non c'è mentre l'altra – che esiste – non ha nessuno che le si rivolga per davvero.

Basta questo frammento – basta quest'immagine, di pochi secondi – per comprendere il senso de Il sogno dell'arrostito: da un lato c'è chi parla mentre dall'altro c'è chi vive ovvero chi sopravvive, facendo di conto con la quotidianità spicciola (economia) e la precarietà (lavoro) in una drammatica assenza di orizzonti (politica): da un lato c'è dunque la classe dirigente (potenziale o effettiva) mentre dall'altro c'è quella che – un tempo, in un altro tempo, a quel tempo – si sarebbe detta “la classe operaia” o, se preferite, che avremmo chiamato “il proletariato” o “il popolo”.

E d'altronde. “Dobbiamo bucare la membrana che separa la vita dai discorsi sulla vita” dice Aldo e io, sentendo questa frase – la più significativa dell'intero spettacolo, a mio parere – penso che Il sogno dell'arrostito metta in scena una crisi: quella che, in maniera lenta e progressiva, inesorabile e costante, s'è prodotta tra le parole e l'esistenza; tra chi rappresenta e chi vorrebbe/avrebbe bisogno/ha la necessità di essere rappresentato: tra la Sinistra, in particolare, e un popolo di Sinistra rimasto oggi senza un partito da votare, senza un'utopia a cui credere, senza un futuro (fosse pure illusorio) verso cui tendere.

Spazio, corpo, parola
Per rendere ciò Alberto Astorri e Paola Tintinelli lavorano sulla scena, sui movimenti e sulla drammaturgia ovvero: spazio, corpo e parola.

Spazio.
Il palco viene diviso in tre parti. A sinistra trovano luogo i comizi; a destra staziona chi lavora mentre nel mezzo – sul fondo, lì dove sono stati posizionati tre assi di legno in verticale, due trespoli per sedersi e una lampadina che cala dall'alto – c'è la sede deputata all'incontro, la porzione d'assito cioè in cui Aldo e Ornella si osservano, si avvicinano l'uno all'altra e si studiano per poi prendere contatto, prima di cominciare a parlare ossia: prima di cominciare a fraintendersi.

Corpo.
Aldo e Ornella danno vita a movimenti in opposizione e, dunque, complementari: lui esiste quasi solo frontalmente (proiettato all'esterno, verso un altrove indefinito) mentre lei dirige sguardi, gesti e passi concreti all'interno, da destra a sinistra, e viene indotta a rivolgersi davvero alla platea solo una volta: su richiesta di lui, quand'è seduta sulle spalle di lui, diventando una cosa sola con lui. Così facendo Astorri e Tintinelli disegnano due figure che convivono sullo stesso palco – ossia nello stesso pezzo di mondo – senza riuscire davvero a stare assieme: sono a un metro di distanza, talvolta sono separati da pochi centimetri, ma non sono mai l'uno fino in fondo con l'altra, come se a dividerli vi fosse sempre una patina, una guaina, una membrana; ecco, la membrana: quella, appunto, che separa “i discorsi sulla vita” (Aldo) dalla “vita” (Ornella). Esseri umani destinati a non comprendersi – e dunque a non coincidere neanche col pensiero – Aldo e Ornella non agiscono mai in coincidenza ed anche quando si parlano non comunicano: non ci riescono.

Parola.

Il sogno dell'arrostito propone perciò: slittamenti di senso, fraintendimenti, nonsense, gag umoristiche, dialogicità frammentaria e destinata al fallimento, verbalità improvvisata e autoreferenziale in contrapposizione alla sonorità degli oggetti – delle cose, della roba, della realtà materiale del mondo. “Ciao” diventa “miao” e poi “Mao”; “bella” si trasforma in “putrella”, cambia in “mortadella”, finisce con “Ornella”; “Roma” richiama la “toma” e “panini” muta in “scontrini”, “cretini”, “bambini”. Simile a quel che accade col telefono senza filo – qui giocato da due persone – una parola o una frase viene progressivamente privata di logica fino a diventare qualcos'altro: fino a diventare solo suono, senza alcuna possibilità di ricadute o conseguenze sul reale. È l'impossibilità della comunicazione, meglio: è la perdita d'ogni legame tra significato e significante. Così Ornella racconta un sogno – la sua “utopia” – ma questo sogno viene travisato, banalizzato, deriso e poi tradotto/tradito da Aldo, nel pieno di un comizio; così Aldo e Ornella non riescono a decidere come sia meglio addentare un toast; non trovano accordo sulla bellezza o la bruttezza di una giacca; litigano rinfacciandosi d'aver detto “sì” e “no” mentre – quando Ornella sta esponendo le sue prospettive, i suoi desideri – Aldo non trova di meglio che suggerirle: “Facciamo l'amore”. Un gesto da catena di montaggio viene scambiato per una creazione artistica; la rucola tra i denti si fonde alla descrizione di un massacro; un verbo viene inteso in maniera equivoca, tra impegno (rivoluzionario) e disimpegno (nella fuga): “Che ne dici se io e te spariamo?”; “A chi?”; “Intendo: che ne dici se io e te andiamo via...”.

La lingua degli slogan

In platea si ride – merito di una poetica teatrale che s'incarna in due figure umanamente deboli e imperfette – ma la questione è seria: si tratta della progressiva degradazione culturale e linguistica di cui parlava già negli anni Settanta Pier Paolo Pasolini; una degradazione che il poeta avvertì prima degli altri, una degradazione passata attraverso la subordinazione dei dialetti (lingue impastate di materia viva) all'italiano di fattura giuridico-borghese, l'affermazione del tecnicismo aziendale, l'imposizione infine di una comunicazione televisivo-pubblicitaria, che trova la sua ultima coniugazione nell'espressività “mostruosa perché stereotipa” dello slogan: “La finta espressività dello slogan è la punta massima della nuova lingua tecnica, che sostituisce la lingua umanistica”. Non si tratta di una mera questione lessicale tuttavia: è la sostituzione di un sistema di pensiero, è la rinuncia a capire, è la resa del complesso al banale, dell'approfondito all'immediato, della comprensione alla diffusione, del vero complicato al falso sbrigativo. È il fenomeno per il quale – da allora – s'arriva a oggi: alla “guerra” edulcorata in “missione di pace”, ai “migranti” perseguiti come “clandestini”, alla “democrazia parlamentare” esercitata in assenza di voto, fino al conflitto referendario odierno, il cui dibattito trova la sua espressività più efficace nella guerra condotta attraverso gli hastagh: #bastaunsì, #iovotono.

Da ieri ad oggi, dai picchetti ai cancelli di Mirafiori alla sala conferenze del Lingotto: così Matteo Renzi, ad esempio – per parlare agli operai della Fiat – necessita della mediazione della classe dirigente, del management aziendale come filtro, ha bisogno cioè di un caporale che risani la frattura costringendo sulle sedie quella che fu “la classe operaia” d'un tempo perché ascolti quella che – un tempo – era/sarebbe stata la Sinistra.

Da un lato le parole, dunque, dall'altro la vita. Nel mezzo, resi attraverso la storia di Aldo e Ornella: l'illusione dello stare assieme (“ti amo”), i primi fraintendimenti (“mi sa che non ci capiamo”), le amarezze reciproche (“è il mio sogno”; “ma è uno strano sogno...”) e il trasformismo opportunista (“non sei più tu”), la degradazione intellettuale e personale, il distacco, l'abbandono: “Chi lo ha detto che dobbiamo vivere assieme io e te? Io e te abbiamo fatto un patto? Io lo rompo il patto”. Aldo si alza dal trespolo, lasciandovi la donna, avanza in proscenio guardando diritto, poi avvicina le labbra al microfono: “Compagni...”, pausa, poi si corregge: “Cittadini, io rompo il patto”.

Finirà – giacca stretta sui fianchi, occhiali da sole, capelli impomatati con un gesto, in gola il verso dell'homo homini lupus – investito da una luce verde che sa vagamente di leghismo mentre a Ornella, privata d'ogni prospettiva, non resta che lavorare per spendere e consumare, cedendo – nel contempo – alla banalità delle associazioni argomentative mainstream e massmediatiche: “Trenta centesimi di aumento; da novanta centesimi a un euro e venti” per un pacchetto di noccioline; “ma se domani costassero otto euro io continuerei a comprarle perché non ne posso fare a meno... certo che, da quando ci invadono dal mare, tutto costa di più. Spendono soldi per tirare su morti...”.

Dall'utopia allo slogan mentre il popolo finisce in balia del populismo.

Prologo, epilogo e una poesia

Questa vicenda – che fa de Il sogno dell'arrostito una metafora (teatrale) perché sia una parabola (sociale) – è incorniciata da un prologo e un epilogo nei quali, ad essere in palcoscenico, non ci sono Aldo e Ornella ma Alberto Astorri e Paola Tintinelli. Il prologo è la descrizione della sceneggiatura di un film, cui fa seguito la sua resa live con i (poveri) materiali a disposizione: così la pioggia è l'acqua versata da una bottiglietta, il sole è la fiamma di un accendino, la fermata di un treno diventa un verso orale mentre “le note del XXI secolo” vengono dalla suoneria di un cellulare. “Metafora del Paese”, questo gioco preventivo serve ad anticipare quello che vedremo e cioè che alle parole (il film) non fa seguito la realtà (gli oggetti con cui cercare di rendere il film). E l'epilogo?

Un anno fa vidi Il sogno dell'arrostito ad Officina Teatro, a San Leucio (Caserta). Uno spettacolo ancora in gestazione, che mi lasciò non pochi dubbi nella sua parte centrale, ora mutata. Diversissimo era il finale: allora veniva proiettato, su una bandiera bianca che sa di resa fin dall'inizio, un filmino anni Settanta che mostrava prima  un nucleo familiare seduto a tavola, poi il padre di questa famiglia – evidentemente in vacanza – andare verso il mare: pochi passi sulla spiaggia, l'immersione lenta e l'inizio di una nuotata a largo. Il filmino ora non c'è più. “A Torino, la settimana scorsa, abbiamo subito un furto” racconta Paola Tintinelli: “Ci hanno portato via alcuni materiali di scena, il proiettore e – soprattutto – il filmino, che non è sostituibile perché lo abbiamo acquistato in un mercatino dell'usato e riprende un uomo di cui non conosciamo l'identità”.

Le immagini così sono sparite.

Tuttavia proprio in questa menomazione tecnica mi pare che trovi riscatto la parola (teatrale): perché Paola Tintinelli, guardandoci, racconta quello che non può più essere veduto e – raccontando –  trasmette (come solo in teatro è possibile, attraverso la compresenza) un'emozione, uno stato di necessità, comunica un bisogno: “Abbiamo bisogno di mare, abbiamo bisogno di guardare lontano, abbiamo bisogno di campi lunghi e di orizzonti ampi” dice; abbiamo bisogno – per citare Federico Tavan – “dell'altalena”, con cui “tornare a toccare il cielo con il culo”.

Abbiamo bisogno di Poesia e di Politica (e della Poesia della Politica); abbiamo bisogno di parole che ritrovino un senso pieno e che abbiano concretezza e abbiamo anche bisogno d'immateriale, di sogni, di prospettive e di futuro.

Tavan lo insegnava coi suoi versi, anche con quelli più desolati ed amari. Con lui ho cominciato, dunque con lui mi sembra giusto adesso finire:

Prima fascismu

Adés no sai

Prima pan e fam

Prima dut un un picjât

Adés panza e robes in pì

Adés l'obligu de chista libertât

Prima parons e gosàdes

Adés paches su li spàles

Prima dute' li póures

Prima cjantâ

Adés duç par cont siô pì poura

Adés la vous ch'a mour

(Prima fascismo / Adesso non so / Prima pane e fame / Prima tutto peccato / Adesso pancia e roba in più / Adesso l'obbligo di questa libertà /Prima padroni e sgridate / Adesso pacche sulle spalle / Prima tutte le paure / Prima cantare / Adesso ognuno per sé più paura / Adesso la voce che muore)

Inequilibrio #1:

AstorriTintinelli, Il sogno dell’arrostito

19 luglio 2016

scritto da Michele Pascarella


La diciannovesima edizione del ‘Festival della nuova scena tra teatro e danza’ di Castiglioncello ha ospitato il recente, feroce spettacolo dell’intrigante duo milanese. Noi c’eravamo: a sghignazzare disperati.
Da non perdere, il Festival Inequilibrio di Castiglioncello: da diciannove anni propone un variegato programma con abbondanza di prime nazionali e progetti speciali, voluto con pervicace passione dai direttori artistici Fabio Masi (per il settore teatro) e Angela Fumarola (per la danza).

Di seguito alcune note a proposito del più recente spettacolo della Compagnia AstorriTintinelli, stralunato duo di base a Sesto San Giovanni già incontrato in altre due occasioni grazie al lavoro curatoriale di un’altra coppia artistica inusuale, anch’essa di casa a Castiglioncello, i Quotidiana.com (Paola Vannoni e Roberto Scappin).

La scena de Il sogno dell’arrostito funziona come una Merzbau.
Come ben sintetizza lo storico dell’arte Fabriano Fabbri, «dal 1923 Kurt Schwitters accumula detriti su detriti attorno alla cosiddetta colonna Merz, assemblaggio costituito da oggetti di scarto, secondo il principio schwittersiano di procedere a un riscatto costante degli elementi considerati infami e schifosi, da destinare a qualche discarica. Cattedrale delle miserie erotiche: il titolo integrale della Merzbau è esattamente questo. Di titolo e di fatto, poiché la colonna iniziale si espande dentro l’abitazione di Schwitters, ad Hannover, occupando prima un piano intero con quintali di oggetti che l’artista deposita a strati creando meandri, pertugi, spazi del tutto irregolari, poi sfondando soffitto e pavimento, su e giù, a invadere altri appartamenti del palazzo. Se Marcel Duchamp sceglie i suoi investimenti estetici nell’ambito del “già fatto”, Schwitters compie la stessa operazione di prelievo, ma in lui agisce la spinta a cercare tra un ammasso di oggetti, dove in qualche modo il tempo cronologico e atmosferico trasmette alle cianfrusaglie l’alone del “già sfatto”».

È un debordante accumulo di ciarpame, per la maggior parte proveniente da una ferramenta dimessa, il campo di battaglia nel quale agiscono Alberto Astorri e Paola Tintinelli.

Battaglia contro chi? Contro cosa?

Verrebbe da dire: contro tutto.

Il sogno dell’arrostito si pone infatti come uno spettacolo sul potere, contro il potere. Arrostito è ciascuno di noi, quando e in quanto assuefatto, ammansito, disinnescato.

L’operazione propriamente estetica (termine qui da intendere, etimologicamente, come l’opposto di anestetica) di AstorriTintinelli rimanda a un’idea di arte militante-politica che non rinuncia a dire a gran voce la propria visione del mondo, a farsi pro-motrice di un possibile cambiamento: il loro è un «teatro delle attrazioni», per stare con S.M. Ėjzenštejn, «il cui compito formale consiste nell’agire efficacemente sullo spettatore con tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnica moderna, un teatro in cui l’attore occupa un posto equivalente a quello di un mitra caricato a salve che spara sul pubblico».

Questo scalcinato cabaret post-atomico, che sarebbe perfetto vedere in un teatrino milanese di periferia o parimenti in uno storico teatro all’italiana tra velluti e ori, senza posa si mette a nudo: reiterata enunciazione della struttura drammatica, cambi di luce e di scena a vista, costruzione degli effetti sonori come parte esplicita della partitura attorale, …

Astori monologa «con quella pacata, amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea», si potrebbe dire citando Ennio Flaiano, mentre Tintinelli, attrice davanti alla quale «trattengo male l’ammirazione» (Flaiano, again), è per la maggior parte del tempo impegnata nel produrre dal vivo una serie di ferrose sonorizzazioni a metà strada fra Luigi Russolo e Einstürzende Neubauten.

Un’inconsolabile, lunare ironia permea Il sogno dell’arrostito, spettacolo che ingloba politica, poesia, arte e società e da tutto, socraticamente, prende distanza.

Per fare ciò adotta la lingua di un solido teatro d’attore-autore ricco di invenzioni: vale ricordare almeno il reiterato tentativo di avviare un comizio politico più volte abortito dall’assordante rumore di una motosega, il passaggio in cui i due attori in scena mangiano toast con acciughe discutendo di cibo e tragedie umanitarie e, sul finale, lo sproloquio sull’aumento di trenta centesimi del prezzo delle noccioline «perché andiamo a raccogliere le salme di quelli che ci invadono con i barconi».

AstorriTintinelli si conferma una Compagnia a cui dedicare attenzione. Per non stare tranquilli.



da Il Pickwick.it
Venerdì, 27 Novembre 2015

Rioccupare le strade coi sogni
Scritto da  Michele Di Donato

“Io a quel tempo / Stavo ancora aspettando Godot, / Cioé aspettavo la morte / Per poter dire ‘rinascerò’, / Fatto diverso, / Collegato d'amore alle masse, / Più cultura, più lotta di classe, / Ma Godot non è mai arrivato, / Si fa le cose sue, / Ed è meglio così, certo / Per tutti e due”.
(Claudio Lolli, Autobiografia industriale, dall’album Disoccupate le strade dai sogni) 

Sogno e follia. Due binari paralleli lungo i quali scorre un treno di senso. Sogno e follia, due direttrici eteree, che sfuggono alla presa tattile per sfumare come una scia impalpabile eppure percettibile nella cappa d’aria in cui siamo immersi. Sogno e follia prendono forma teatrale per raccontare una provenienza ed una destinazione, una scaturigine probabile ed un approdo possibile: dalla follia (e da un’utopia ormai scemata, ma non per questo rassegnata all’abdicazione) prende le mosse Il sonno dell’arrostito, di Astorritintinelli per condurre la propria parabola verso il recupero di una purità sognante, di cui informare la speranza per un futuro migliore.

Il sogno dell’arrostito è (vuole essere) “una sintesi di questo Paese” e, nel suo farsi scena, riesce a condensare un sunto immaginifico, che si dichiara teatro sin dal suo inizio, con le indicazioni di una drammaturgia lette in scena e l’ostentazione di una finzione per cui la pioggia è l’acqua versata da una bottiglina e il sole è la fiammella di un accendino: dichiarazione preventiva di una metaforizzazione incipiente, quella che vedrà protagonisti Alberto Astorri e Paola Tintinelli, Il sogno dell’arrostito è una pantomima grottesca, didascalica ma non apologetica, che racconta una contemporaneità che ha smarrito più d’una coordinata ideale, ormai orfana di ideologie granitiche ma anche povera di ideali residuali.
Lo fa dichiarandosi tributaria a Federico Tavan, che nel borgo solingo di Andreis convisse con quella stramba follia per cui per taluni sei un matto, per altri soltanto un poeta.
E c’è una parafrasi proprio di Tavan che sembra illuminare una via al senso ed all’azione, parla di un merlo senza voce e di una valle senza sole (“perché quando il merlo perde la voce, sai che freddo nella valle”), la pronuncia Alberto Astorri, nei panni demodé di un comiziante concettoso, i cui slogan imparati a manovella s’impigliano in vacuo farfuglio, merlo sfiatato in una valle in cui non c’è parola che scaldi; e poi, dall’altra parte c’è lei, Paola Tintinelli, la forza lavoro, il clangore alacre che produce, colonna sonora d’un indefessa attività operaia che si contrappone alla fuffa parolaia di chi dovrebbe rappresentarla.
Sul palco i due incarnano la parola (e il pensiero che le è sotteso) e l’azione (che di quelle parole e di quel pensiero dovrebbe essere forza motrice); riproducono dinamiche riconoscibili, in cui la parola si fa stantio incitamento all’azione, membrana che separa i discorsi sulla vita dalla vita veramente vissuta, evidenziando così quella frattura, sempre più divaricata, fra realtà e politica, tra l’individuo e chi ne dovrebbe rappresentare le istanze. Lui ciancia,  arringa, bofonchia sofismi vani,  fa partire una canzone che s’inceppa – la deandreiana Ballata degli impiccati – mentre lei agisce, armeggia, maneggia, canticchia Una furtiva lagrima, perché o canta o si suicida, intanto sullo sfondo più forte rimbomba il rumore della fabbrica. C’è un tentativo fallace di trovare un’empatia tra due mondi distanti, c’è il tentativo infruttuoso di estrarre l’arte dall’azione, come Michelangelo seppe fare estraendo la Pietà contenuta nel blocco di marmo; ma l’arte “è un peso”, come lui rimarca dopo averla issata sulle spalle. Non c’è nulla da fare, si parlano linguaggi differenti, sono orfani di guide spirituali, creature mutanti che sono il frutto di una trasformazione antropologica, le ideologie svanite li hanno lasciati spaesati ed un dio che sembra essere scappato, come suggeriscono tre assi verticali sul fondo che paiono alludere ad un calvario senza Cristo, ai cui piedi i due dissertano, come fossero Dimaco e Tito “orfani” d’un messia fuggiasco.
Ne sortisce una deriva contemporanea, trasformistica, che vede inscenati i nuovi panorami della politica, quelli in cui i “compagni” di una volta trasmigrano in finiture borghesi, proliferano i grillismi e tentano di sopravvivere le superfetazioni della conservazione. Indossare una giacca nuova vuol dire adeguarsi al cambiamento, a costo di rinnegare se stessi, credendo di salvarsi mentre l’acquiescenza alla società dei consumi – anzi, del “produci-consuma-crepa” – compie la sua nemesi sotto forma di nocciolina, bene voluttuario rincarato di cui non si riesce a fare a meno e che quasi strozza la donna. C’è un senso di resa che sembra aleggiare, la resa della lotta e dell’azione dinanzi all’incedere inesorabile di una sedicente idea di progresso, che riduce l’uomo a braghe calate, con una bandiera bianca sventolata e apposta sul viso per non voler vedere. Ma c’è, di contro, un vagire d’infante che è uno squarcio nel buio, che prelude ad immagini di speranza ed a parole che danno corpo ai sogni; c’è, nel riavvolgere e di nuovo svolgere il nastro del vissuto, un barlume – visivo e sonoro – che si sostituisce al ritmo metallico che scandisce il lavoro per animarsi del ritmo selvaggio della disobbedienza, un ritmo che appartiene all’infanzia.
Un ritmo che appartiene al sogno, che appartiene alla follia, che appartiene alla dimensione nomade di chi, follemente, non vuol più sopportare l’idea d’un martirio vocazionale, non vuol più rassegnarsi – come fosse un novello san Lorenzo – a subire il supplizio della graticola, abbrustolendo un po’ ogni giorno, ma vuole ancora, disperatamente, follemente, sognare.
Di questo sogno, di questa follia Alberto Astorri e Paola Tintinelli hanno fatto i binari lungo cui far scorrere, fluida e poetica, una drammaturgia della ribellione che appare come uno squarcio nel buio del tempo presente, lanciato come una fiammella verso il tempo futuro.

Lo spettacolo è dedicato al poeta Federico Tavan, una purità sognante.

da Klpteatro


Il Sogno dell’arrostito: AstorriTintinelli e le utopie sulla graticola

Martedì 22 Dicembre 2015 - Vincenzo Sardelli


Rivoltiamoci ora, non nella tomba. Questo l’ambizioso e velleitario AstorriTintinelli-pensiero nello spettacolo “Il sogno dell’arrostito”, in prima milanese al Teatro della Contraddizione di Milano dopo il debutto nazionale all’Officina Teatro di San Leucio (Caserta).

In scena, surreale più che mai, la strana e consolidata coppia formata da Alberto Astorri e Paola Tintinelli, autori del testo con Rita Frongia. E il sogno di chi s’illudeva di trasformare il mondo e non riesce a cambiare neppure se stesso.

L’utopia rivoluzionaria aleggia come un gas inerte, all’interno della fabbrica o nella bottega di un artigiano. Naufragi personali e collettivi. “Il sogno dell’arrostito” è il folle dialogo tra un sindacalista e un operaio. Il sindacalista è ammorbato da parole che son formule vuote. All’operaio laborioso e inconcludente, devastato da miseria e tendenze suicide, manca giusto una corda per impiccarsi.

L’azione (si fa per dire) scenica si svolge tra luci alienanti e arnesi da ferramenta assembrati in modo bizzarro. I brani musicali che intervallano il duetto sono complemento drammaturgico che spazia da Donizetti a Claudio Lolli, da Fabrizio De André a Gianfranco Manfredi. È l’armonia ingannatrice di uno spazio mortificante. È routine sorniona, contaminata da rumori nevrotici prodotti con martello, pialla, rulli e manopole.
Si gira come un motore senza cinghia di distribuzione. Si abbaia alla luna. Si enunciano ideologie temerarie. Un istante dopo si disserta su quanto siano piccanti le acciughe che si biascicano svogliatamente in un toast.

“Il sogno dell’arrostito” è una sequenza di pause e attese, vacuità e malintesi. È l’apoteosi del “vorrei ma non posso”. È un po’ il capovolgimento della morale di “E dimmi che non vuoi morire” di Patty Pravo: qui è la vita che cambia noi, giacché noi non riusciamo a cambiare la vita.

Quei personaggi sulla graticola siamo anche noi. Vi cuociamo sopra, senza neppure accorgercene. Ci scopriamo deformi, gli occhi allucinati, gli sguardi allampanati. Ci ritroviamo agli antipodi di quello che doveva essere il nostro punto d’approdo. Alcuni di noi non sono mai neppure partiti.

Ad animare lo spettacolo è un mix pacioccone di freddure demenziali. È una vena creativa popolaresca: poche e stupite parole, movenze da bradipo, acrobazie a mezz’asta.
Testo e ritmo (volutamente) non decollano e tendono ad avvitarsi. Ci appisoliamo sotto luci tiepide di abat-jour. Ci stordiamo al suono di rumori reboanti, o al fruscio di un vecchio vinile. È teatro dell’assurdo e dell’alienazione. Mancano acuti geniali, ma tant’è.

Affascina la prova attoriale rigorosa e surreale, sigillata da una triplice nota onirica: un ballo solitario da cigno ferito; immagini registrate su un vecchio nastro; voci di varia umanità sognante.
All’epilogo, una candela non vuol saperne di spegnersi. Gli applausi restano sospesi per momenti interminabili. Prima di sciogliersi, in uno scroscio liberatorio.

Visto a Milano, Teatro della Contraddizione, 12 dicembre 2015

visto a Inequilibrio festival

luglio 2016

Comizi in fumo
di Tessa Granato

Apparecchiature elettroniche, ma anche un teatro concentrato quasi esclusivamente sulla somma dei suoi due protagonisti. La Compagnia Astorritintinelli anima Inequilibrio Festival.

Come coppia artistica, sanno incastrarsi alla perfezione. Colmandosi a vicenda, arrivando laddove l’altro non arriva. Astorritintinelli Teatro (progetto nato nel 2002): Paola Tintinelli porta in dote il volto stralunato, espressioni che sfrecciano dallo smarrimento a un attaccamento infantile, primitivo alla vita – da attrice amante ed esperta di circo quale è. Alberto Astorri la pura e innocua virilità, insieme a un sapiente uso della voce – frutto anche della lunga frequentazione con Leo De Berardinis.
Le tracce di senso si perdono continuamente nella performance Il Sogno dell’Arrostito, come la scia di una strana meteora.
I due personaggi sembrano attendere in scena il pubblico da ore, forse anni; sembrano portatori di storie millenarie, che iniziano a raccontare con un accendino e un perpetuo gioco verbale/fisico – in una catena illogica, umoristica, seria; forse voce lontana di un antico rito sciamanico. Ma gli abiti sono contemporanei, o appena appena dell’altro ieri. Niente, di quello che è stato costruito nella stranissima scenografia adagiata sul pavimento, dà precise coordinate spazio/temporali. Oggetti che sembrano parte di una barricata, di una trincea, mentre le apparenze si confondono. Quello che pare il pezzo di un’antica macchina da cucire è azionato da Paola Tintinelli per emettere suoni almeno apparentemente campionati in presa diretta, insieme ad altri effetti sonori che creano un tappeto elettronico profondo, nel momento clou del sarcastico comizio di Alberto Astorri.
I due attori sono un uomo e una donna, operai e militanti politici, macchiette della storia e della cronologia, parodie dei loro tempi. Tempi, i nostri, né tragici né comici, forse insulsi, forse ponti per nuove epoche più felici per l’umanità. Il comizio è, in realtà, una parodia; e a spezzare l’incantesimo arriva la donna, che descrive i suoi sogni notturni. Viaggi intergalattici, piogge torrenziali, mandrie di cavalli. Ogni immagine è simbolo di libertà. La libertà a cui il genere umano aspira e che la controparte maschile riesce a interrompere o smentire. I tuoi sogni sono assurdi e irrealizzabili, le fa intendere. E riprende il discorso, un discorso ormai sfatto e stanco, stritolato.
Quando i due si incontrano nuovamente, alla luce fioca di una lampadina, cercano di comunicare sotto i rumori assordanti della fabbrica.
Non c’è inizio e non c’è fine, e anche quando il pubblico applaude rapito, vi è la sensazione che, da qualche parte dentro di noi, i due continueranno a parlarsi, guardarsi, mangiare sandwiches e raccontarsi i propri sogni, mentre l’arrosto continuerà a cuocere lentamente.
Ecco come proiettare in drammaturgia quello che è la nostra vita. La catena di montaggio, il grottesco, la negatività del potere, la paura del vuoto e del nulla. E anche l’accoglienza del vuoto e del nulla, del banale. Banale come l’aumento di un pacchetto di noccioline, banali noccioline che quasi ci strozzano.
C’è, dietro questo spettacolo, una drammaturgia amara, vorticosa, lineare e astratta. E si è potuto, finalmente, assistere a una recitazione-non recitazione, che sa unire il buffo e il clownesco, il parodistico e il surreale, senza scivolare nel didattico o nel rieducativo o nel socializzante. Qui si parla di vita e di umanità – entrambe incomprensibili. E per questo affascinanti e terribili.

RECENSIONI


da Dramma.it

Teatro della Contraddizione, Milano 17 dicembre 2015

Il sogno dell'arrostito
Scritto da Angela Villa.

One Man Band: uomo orchestra. Un uomo e una donna in scena: luci e musiche gestiti dal vivo e da soli. Astorri e Tintinelli coppia “calda” del teatro postmoderno, presentano al Teatro della Contraddizione, a Milano, il loro sogno. Un piccolo spazio accogliente di sperimentazione teatrale e di resistenza, accoglie questi due artisti e intanto regala, a sua volta, sogni a chi varca la sogna.,. Coppia calda perché nella loro realtà teatrale tutto passa attraverso il corpo, un corpo umiliato e offeso che grida vendetta, un corpo didascalico. Questa è la loro scommessa sempre ben riuscita, il lavoro sul corpo, la parola scenica che attraversa e dilania il corpo come negli antichi teatranti. Figure atipiche del panorama teatrale italiano: one man band, in grado di reggere da soli tutta l’orchestra dei diversi elementi teatrali, in grado di sostenere una metarecitazione senza forzature,

una recitazione sulla recitazione, dove l’istinto caricaturale, satirico, si esprime non solo nei confronti del reale ma anche verso la realtà teatrale che diviene metafora dell’irreale. Lo spettacolo è dedicato al poeta Federico Tavan (Andreis, 5 novembre 1949 -Andreis, 7 novembre 2013) poeta italiano di lingua friulana. Poeta della diversità, della difficoltà, del dolore di vivere, e della stupenda e insostenibile meraviglia di chi guarda il mondo con gli occhi dell’infanzia con gli occhi della disubbidienza. Bisogna saper disubbidire anche da adulti e per farlo bisogna ritornare nudi, ritornare bambini ritornare alla poesia, in fondo i poeti sono come i bambini, sosteneva Stanisław Jerzy Lec: «I poeti sono come i bambini: quando siedono a una scrivania, non toccano terra coi piedi». Uno spettacolo che oscilla fra la poesia e il grido di protesta (drammaturgicamente poteva aprirsi ad ulteriori spunti attingendo maggiormente alla poesia di Tavan). Un uomo e una donna, due compagni, due militanti politici, si trovano a dar vita ad un comizio. L’uomo potrebbe essere un sindacalista, un rappresentante del potere politico, la donna un’operaia ma anche un’artista sfruttata e mal pagata come ce ne sono tante nel nostro paese, ama la musica, anche se non sa cantare. Piegata sulle macchine intona un’aria tratta da “L’Elisir d’amore” di Donizetti e svela il mistero tutto italiano: il sindacalista/politico, in realtà è un truffatore, un ciarlatano, un trasformista, cambia idea come si cambiano i panni, è un novello Dulcamara che cerca di vendere alla gente il proprio Elisir, le proprie portentosi idee sull’avvenire su quello che si deve fare su quello che è meglio per tutti. L’uomo vomita al microfono ricette di felicità, parole sconnesse musiche a singhiozzo; intanto l’operaio artista, lavora in un piccolo angolo della scena e nel frattempo sogna un cambiamento che non avverrà perché il sogno del cambiamento facilmente declina in una forma di repressione e restaurazione. Uno suda, si affanna, l’altro chiacchiera finge commiserazione e intanto ruba il cibo... Uno spazio vuoto separa i due personaggi: è il sogno dell’arrostito di tutti quelli che continuano a sacrificarsi. Chi ha barattato le loro ali? Il Palazzo direbbe Pasolini... Paola Tintinelli sempre perfetta e sognante, magica; un solo suggerimento: elimini la parrucca, il suo volto i suoi capelli le sue labbra sempre in cerca della parola che arriva a stento, sono poesia, non c’è bisogno di altro. Alberto Astorri offre una buona prova dell’uomo moderno che ha venduto l’anima al diavolo e che per recuperarla deve fare una cosa sola: tornare bambino, danzare sulle note dell’infanzia. L’uomo postmoderno ha abbandonato la lotta. Una speranza sola, tornare indietro nel tempo recuperare ciò che abbiamo perso...ed ecco in scena appare un filmino d’altri tempi, giochi di bambini: “faccio finta di essere un guerriero, un cavaliere...provo a disobbedire...” La lotta va ripresa...E tuttavia bisogna saper aspettare: «Mi dicevo: Vladimiro, sii ragionevole, non hai ancora tentato tutto. E riprendevo la lotta». ( Aspettando Godot , S. Beckett)

da TeatroeCritica

Giovedì 17 Dicembre 2015

Astorri Tintinelli: ricominciamo a sognare assieme
Scritto da Luca Lotano -

«The sound is acting. And I love the activity of sound». Innamorato di una concezione altra di suono, John Cage dichiarava di non aver bisogno che la musica gli parlasse, amava il suono – del traffico, del movimento – in quanto metonimia dell’azione. E così Paola Tintinelli, in un dj-set (p)artigiano*, fa suonare in scena il lavoro: strumenti costruiti da lei stessa, attrice e scenografa, con una manovella, un tagliapatate, una piastra di ferro con un martello a far da timpano, delle chiavi: «sono cresciuta in una ferramenta» dice «questi rumori mi appartengono». Lei, la donna, l’arte, l’artigiana, è una delle due figure de Il sogno dell’arrostito, ultimo lavoro del duo di attori Astorri/Tintinelli. Al suo lato, lui, un uomo, un compagno, militante politico surreale, ispirato nel suo comizio dal blaterare schiumoso delle idee, dal conato delle parole che non arrivano nemmeno al vomito.

Al Teatro della Contraddizione la compagnia fondata nel 2002 da Alberto Astorri e Paola Tintinelli porta in scena la dicotomia tra la forza della parola e quella del lavoro: la prima viaggia libera, vorrebbe danzare ma degenera, deraglia, disarciona sé stessa,  la seconda esplode in violenza quando non trova voce, imprigiona, ma è anche capace di rendere il suo rumore ritmo vitale, reminiscenza del ritmo che avevamo quando siamo nati. C’è uno strano sollievo in quel battere, forse perché salva le parole immobili del militante che passerà dal pugno alzato al rigido saluto del camerata in un’evoluzione fisica e drammaturgica che rischia di aderire a quella storica dell’oggi: il disarmo delle braccia, lasciate cadere lungo i fianchi nella rassegnazione di un’Italia arrostita, sui visi, nelle gambe.

Tra arte e politica, tra azione e parola, i due personaggi richiamano con il corpo le righe del testo di Guido Ceronetti – «c’è qualcosa che somiglia ad un calo d’irrorazione d’amore» – nel suo La pazienza dell’Arrostito (Adelphi, 1990), dal quale prendono appunto il termine; affascinati, imbarazzati, terrorizzati dal cuocere lento di un popolo che ha barattato le proprie ali, gli autori del testo sono partiti su un pulmino per le cittadine dell’Emilia Romagna registrando su audiocassette magnetiche i sogni, le utopie di chi sta guardando la bellezza che si ritrae dai nostri luoghi e dalle nostre menti. Poi da quelle visioni, uno spettacolo. Lo avevano anticipato, in nuce, già nella illuminante “lettera d’amore” con Oliviero Ponte di Pino e a distanza di un anno quel Volkswagen Traumer azzurro e bianco ha cominciato a restituire la dimensione del sogno, in uno spettacolo poeticamente costruito dalle mani, dalle gambe e dal viso trasognato di Paola Tintinelli, dalla carne e dalla voce di Alberto Astorri.

Si nutre di citazioni e di imprevisto l’opera, libera dal dover confezionare frasi finite, votata a quel limbo in cui poesia e teatro barcollano ubriachi, abbracciati e stretti, tra il tragico e l’ironia. Mentre lascio Milano e torno a Roma – dove una compagnia visionaria che sta scrivendo una pagina del teatro di oggi dovrebbe trovare molto più posto per il proprio Volkswagen – Alberto Astorri e Paola Tintinelli mi indicano a distanza la mappa sotterranea dello spettacolo che si snoda tra i film di Elio Petri, l’attenzione a Cesare Zavattini per i discorsi politici surreali dai compagni ai cittadini, le interviste di Foucault sul potere e i disegni del pittore siciliano Bruno Caruso. Poi, Federico Tavan, poeta friulano scomparso di recente, che ha conosciuto la follia e al quale è dedicato lo spettacolo: è sua la voce finale a pronunciare, in un caustico sogno, «ridatemi l’altalena voglio toccare il cielo con il culo».

I due personaggi volteggiano, si tradiscono, cadono nel buio. Il cortocircuito che ridarà nuova luce è onirico: l’arte bussa primitiva come un grosso scimmione sul parabrezza dell’uomo pensante, che credendo di esser partito era invece solo parcheggiato. Rispondere all’altro, alzarsi dalla sicurezza della graticola vuol dire essere folli, follis (pallone d’aria), pallone pieno di vento per giocare, vivere la vacuità come leggerezza del corpo, come la danza liberatoria del militante che infine tace e, in una grottesca danza nuda e liberatoria, ritorna alla vita. Intanto l’arte lascia cadere il suo canto come lacrima furtiva. La speranza è nello smettere di sognare da soli e nel ricominciare a sognare assieme, dice una voce di donna registrata nel Pulmino dei Sognatori; e lo dicono, ballando durante gli applausi e cantando all’unisono Mai più resistenza (ai sogni), anche Astorri e Tintinelli.

da RUMORSCENA


21/12/2015

Un “Sogno” che svanisce e si allontana dalla vita degli uomini

Scritto da Roberto Rinaldi

SAN LEUCIO (Caserta) – Il sogno di chi ha rincorso per tutta la vita un ideale che a guardar bene è un’utopia: quella che ti fa credere ad un mondo migliore, alla rivoluzione di due esseri umani, un uomo e una donna, un sindacalista e un’operaia. Illusi nel cercare di emergere da una vita in cui si sentono confinati e privati di quella libertà capace di offrire loro, quell’emancipazione sociale, tanto da non accorgersi come: “Il potere mette in atto una mutazione antropologica, l’uomo è convinto di restare lo stesso e di credere ancora nelle sue idee, ma in realtà non si accorge di essere passato dall’altra parte – spiega Alberto Astorri nelle note di regia de Il Sogno dell’arrostito – e gli orizzonti si chiudono sempre di più. L’uomo, facendo così, finisce nel buio”.

E il buio è anche l’inizio della rappresentazione teatrale di Paola Tintinelli e Andrea Astorri, vista in prima nazionale all’Officina Teatro a San Leucio (Comune di Caserta). Non a caso, lo spettacolo assumeva ancor più un significato sociologico, vista l’ubicazione e il contesto territoriale in cui è presente una piccola quanto feconda realtà culturale artistica, diretta da Michele Pagano e Maria Macrì, impegnati nel promuovere un teatro, non solo di ricerca, ma anche, e soprattutto, occasione di  formazione educativa e culturale, offerta alle nuove generazioni e private di ogni opportunità di aggregazione sociale e culturale, vista la poca attenzione delle istituzioni pubbliche nei loro confronti. Il “sogno” qui si trasforma in realtà grazie alla costanza di poche persone che lavorano giorno e notte, in uno spazio condiviso con una vera officina meccanica per la riparazione d’auto, posta accanto alla sala teatrale, dove affluiscono non solo gli spettatori ma anche un centinaio di giovani iscritti ai laboratori di teatro. Astorri e Tintinelli non potevano trovare un luogo migliore per raccontare con la forza delle parole e di pochi elementi scenici, una storia che potrebbe essere quella di migliaia di operai che lavorano nelle fabbriche, di uomini alla catena di montaggio, di gente che lotta per i propri e altrui diritti sindacali.
Tutto inizia con una scena minimalista che pare un prologo surreale, quasi estraniante, di una forza visiva come potrebbe essere quella di un film muto. L’azione è mimata per rappresentare come il sole si possa raffigurare con la fiammella di un accendino, la pioggia con l’acqua di una bottiglietta versata per terra, la musica che fa da colonna sonora la si ascolta da un telefono cellulare, fino alla proiezione di immagini familiari risalenti ai loro anni ’70. Non è casuale: i due autori e interpreti raccontano momenti di vita quotidiana del passato, quasi idilliaci, domestici, che si trasformano quasi per una strana traslazione dalla realtà oggettiva, a qualcosa di amaro e malinconico. La nostalgia di un tempo che fu. L’uomo sindacalista e l’operaia parlano ad una società in disfacimento. Lui come se fosse ad un comizio, con la forza della parola. Lei, anche con i suoni riprodotti da strumenti scenici mutuati per farne attrezzi da lavoro. Si assiste ad un progressivo scollamento tra l’urgenza della parola stessa declamata, enfatizzata, resa con foga energica, e il contesto in cui si deposita: la realtà circostante fatta di sudore e fatica, il rumore ossessivo del ferro battuto che satura l’udito e si sovrappone alla voce dell’uomo. Tutto sembra annullarsi in una baraonda caotica di parole, sentimenti, emozioni contrastanti, rabbia, speranze disattese e svanite.
Più i due si cercano e si confrontano e più si allontanano. Rimbalza su chi assiste e ascolta, la frase che pare un’esclamazione, quasi un monito: “ Occorre scavare la membrana che separa la vita dai discorsi della vita”. Una barriera che si viene a creare tra chi voleva cambiare la vita stessa, la loro, così alienata e deprivata di sentimenti reali (anche d’amore) e l’impotenza di non riuscirci, dove l’illusorio immaginario di una felicità ormai perduta, viene “arrostita” –  sulla graticola così chiamata dagli autori  per rendere visibile un concetto –  che ai nostri giorni appare sempre più verosimile, se pensiamo alla nostra di esistenza quotidiana. Il “Sogno” di chi ha cercato per tutta la vita di restare a galla e non trova nel suo presente un salvagente. Il Sogno di un arrostito è la rappresentazione plastica di un teatro capace di esprimersi con poco, dove basta la presenza fisica ed espressiva
degli attori,  e la capacità di suggestionare attraverso un amacord rievocativo, da cui esce un ritratto impietoso di un’Italia che ha smarrito la sua identità.


http://www.rumorscena.com/20/11/2015/il-sogno-dellarrostito-prima-nazionale-officina-teatro-san-leucio

da SaltinAria


Il sogno dell'arrostito - Teatro della Contraddizione (Milano)

Scritto da  Francesca Ruina Mercoledì, 23 Dicembre 2015 

Dopo il debutto a Officina Teatro - S. Leucio, la compagnia AstorriTintinelli porta “Il sogno dell'arrostito” al Teatro della Contraddizione di Milano. Sul palco un uomo e una donna, due compagni, due militanti politici, si trovano a dar vita ad un comizio. Due figure perdute, sopraffatte dalla routine, l'una tendente al suicidio, l'altra alla ricerca di una speranza, l’uno rappresenta la forza delle parole, l’altro la forza del lavoro. Entrambi credono nell’utopia e nel riscatto per un mondo diverso, ma mentre il tempo scorre, quasi senza accorgersene, tradiscono i loro stessi ideali.

Che cos'è un dispositivo, un dispositivo di potere? Se lo sono chiesti Foucault, Deleuze, Agamben, dipingendo un sistema complesso di leggi e istituzioni ingabbianti, ma anche di oggetti che ci usano, di un linguaggio che ci parla, di gesti che non muoviamo ma da cui siamo mossi; idee e ideologie che si confondono, dove le prime finiscono irrimediabilmente al servizio delle seconde.

Dalla filosofia al teatro, la coppia Astorri-Tintinelli mette in scena questo dispositivo, sottolineando il passaggio dal sogno a un “credo” fideistico riempito di vuoto.

L'uomo - Alberto Astorri - è un militante politico che potrebbe appartenere a qualunque fazione, un “compagno”, ma di chi non lo sa nemmeno lui. Vorrebbe “bucare la membrana che separa la vita dai discorsi sulla vita”, ma, dicendolo, non sa di essere già schierato dalla parte del linguaggio, di quei comizi la cui bandiera è un niente ogni volta diverso, una quisquilia da eleggere a grande ed effimero ideale con cui arrostire i cervelli. Il no, la rivoluzione, le idee, la creatività, diventano concetti vuoti, puro blaterare, strumenti a servizio di un potere che impedisce l'esistenza di “una terza via tra chi lacrima e chi sanguina”.

Se lui è la parola (vuota), lei - Paola Tintinelli - è una voce che striscia nel silenzio dell'alienazione, non verbalmente ma con i battiti, i suoni, i ritmi ancestrali. Oggetti metallici, rudimentali, sfregati tra loro, tra manovelle e martellate, tra i sussurri e le urla di quei dispositivi oggettuali che danno e rubano la voce. Un'operaia, un'artigiana, un'artista, o forse semplicemente una donna con dei sogni, sfumati tra le trame della repressione, del silenzio o del troppo rumore.

Eccoli i sogni, che i due si raccontano deridendosi a vicenda, masticando le rispettive esistenze tra comizi e martellate, tra toast poco piccanti e noccioline troppo care. Lui che sogna uno scimmione con la sua faccia che tenta di tirarlo fuori dall'automobile, quasi in uno scontro animalesco interiore, al grido di “uomo, vieni fuori”, sotto la pioggia, a combattere con un'animalità dimenticata. Niente, l'uomo non esce. Lei allora racconta il suo sogno: chiudere il mondo fuori dalla stanza e involarsi, finalmente libera come non lo era mai stata, nello spazio, lontana dalla realtà, incurante dei richiami di quelli sulla Terra che si ostinano a volerla lì. Niente, lei non torna.

L'incomunicabilità dei sogni è la massima espressione di un' incomprensione linguistica - ed esistenziale - che il duo Astorri-Tintinelli evidenzia fin da subito: il verbo sparire che alla prima plurale si coniuga allo stesso modo del verbo sparare (“spariamo”) o il fatto di essere mobili, con la doppia accezione di mobilità e di oggetto d'arredamento (peculiarmente immobile).

La compagnia gioca ironicamente sull'incomprensione reciproca dei due personaggi, che sembrano parlare lingue diverse, vivere in mondi diversi, ma rappresentano in realtà la doppia faccia di quella “Ballata degli impiccati” di De Andrè, che si inceppa sul giradischi proprio nel punto del morire a stento, “ingoiando l'ultima voce”.

E allora qual è, se esiste, la voce degli arrostiti? La nostra voce di oggi, sospesi tra alienazione e ideologie?

Ci rispondono le voci raccolte e registrate da Astorri e Tintinelli, partiti a bordo del loro Pulmino dei Sognatori alla volta dell'Emilia Romagna. Ci risponde una frase di Federico Tavan, poeta friulano recentemente scomparso a cui lo spettacolo è dedicato: “ridatemi l'altalena voglio toccare il cielo con il culo”.

Ma soprattutto ci rispondono loro, Alberto Astorri e Paola Tintinelli, ballando a fine spettacolo sulle note della canzone “Mai più resistenza” di Gianfranco Manfredi. Saltellando fuori dalla gabbia dorata del linguaggio, in una terza via tra sangue e lacrime, fatta di sguardi che non hanno bisogno di parole ma che sono puro corpo danzante.

“Se ci sarà ricostruzione, che sia di nuova percezione”.