recensioni
"Questo ultimo nostro lavoro è ispirato e dedicato a Charles Baudelaire.
Quando l’anno scorso ci è stato chiesto da parte della Biennale Teatro di Venezia,
(diretta da Antonio Latella) uno spettacolo sul tema della censura
noi abbiamo pensato a "I Fiori del Male".
Una raccolta di poesie che ha segnato tutta la modernità (tra i libri più letti al mondo)
E' stata censurata, anzi ha avuto un processo vero e proprio.
Quei fiori del male vennero considerati dalla società di allora velenosi e pericolosi.
Forse nel nostro lavoro troverete qualche traccia di quelle poesie ma non è importante.
Diciamo che le atmosfere oppiacee e sognanti dei versi di Baudelaire, insieme ai suoi rimorsi,
ai suoi rimpianti, a un senso irreparabile dell’esistenza, ad un’attrazione verso il vizio e la noia,
ci ha guidati a costruire questa favola crudele.
Una storia di pennuti interpretata da due attori, due tragiche morti, un misterioso uovo a cui credere, la speranza di essere salvati da un nuovo messia.
Si aspetta, si prega,
ci si demolisce in una sorta di rito pubblico dentro questa commedia dai toni sinistri.
Sono flussi di coscienza o deliri di allucinazioni?
E alla fine cosa ci aspetta, una verità segreta da rivelare o una grande balla colossale?
A Venezia lo spettacolo (in scena al teatro Goldoni per una sera soltanto) si avvaleva delle collaborazioni di Lugi Biondi al disegno luci e di Francesco Traverso alle musiche originali.
Dopo tutte le difficoltà di quest’anno, non solo economiche, e noi sull’orlo di scomparire,
non sarà possibile riaverli in questa nuova edizione per il Teatro della Contraddizione che ringraziamo quale coproduttore nell’avventura Veneziana e in questa nuova riapertura di stagione tanto attesa a loro siamo grati."
Grazie per le maschere a Sara Mongelli
e in questa edizione ringraziamo Francesca Amato per le infinite uova
13 ottobre 2021
RACCAPRICCIO : IL CORAGGIO DI OGNI GIORNO
di Raffaella Roversi
Sino al 10 Ottobre 2021, al Teatro della Contraddizione di Milano, la Compagnia Astorritintinelli Teatro ha portato il suo ultimo lavoro, Raccapriccio.
Raccapriccio è secondo il vocabolario Treccani, quel sentimento di orrore e ripugnanza tale da far rabbrividire alla vista, all’apprendimento o anche al ricordo, di fatti che turbano profondamente.
E Raccapriccio prova l’attore su una scena che sa di putrefazione, costretto come ogni sera a narrare insieme ad una attrice, la storia di due esseri pennuti. Essi, recita il copione, dopo un lungo volo sono caduti sulla terra e sono morti, lasciando però in dono, il frutto del loro sogno di amore: un grande uovo bianco. Gli uomini, lo hanno salutato con gioia e portato al tempio per venerarlo in attesa che si schiudesse e portasse allora gioia e liberazione dalle tenebre.
L’attore questa sera davanti a noi, non vuole recitare la finzione. Sa infatti che i pennuti dall’azzurro sono caduti sulla terra, Stige fangoso e plumbeo dove non penetra lo sguardo del cielo e che gli uomini li hanno barbaramente uccisi e si sono fatti scherno dell’uovo, giocandoci a palla. Si è stancato della finzione della recita. Vorrebbe sognare aiutandosi con l’oppio per uscire dal corpo e non vedere le forbici della vita che tagliano le ali. Litiga con l’attrice che invece vuole portarla a termine, con dovere, lucidità, compostezza per mantenere in vita la speranza del nascituro pennuto.
L’arte, dice lei tra le note di Mahler e Mendelsshon, ci può tenere lontano dal tumulto della vita.
Duellano su una scena che ricorda un mondo sopravvissuto ad una catastrofe, emblema chiaro di un destino irrimediabile che, come scriveva Baudelaire, fa pensare come il diavolo faccia sempre bene tutto quello che fa! Sono su due posizioni contrastanti.
Raccapriccio : il coraggio di ogni giorno per difendere la propria individualità
E molti di noi rabbrividiscono perchè conoscono la lotta quotidiana della coscienza di chi si sente in esilio dal mondo, di chi sa che la recita è finzione, cosi come è finzione la simbologia del divino pennuto nascituro con tutte le sue illusioni. Sanno anche che la moralità, l’obbedienza ai principi di sobrietà, il compiere i propri doveri con ostinazione, non sono qualità spirituali di carattere superiore infusi da un ente divino, ma condizionamenti inculcati alla gente, per renderla rassegnata e debole con parole che hanno perso la loro seduzione.
Eppure cercano quotidianamente, come l’attrice in scena, il coraggio di vivere di ogni giorno per farne qualcosa di bello, pur sperando che venga l’ora di andare in malora per più non sperare.
Astorri e Tintinelli ci regalano uno spettacolo potente, simbolico, nel loro stile tra il fiabesco e il day after. Se non li conoscete, andate a conoscerli. Sentirete la loro lotta per la vita, per difendere la loro individualità, che prima di essere artistica è umana. Toccherete il loro sforzo, la loro coerenza e la loro misura, oltre la quale non è consentito spingersi.
Astorritintinelli Teatro
presenta
Raccapriccio. Un anno dopo
di e con Alberto Astorri e Paola Tintinelli
In coproduzione con Associazione Gli scarti e Teatro della Contraddizione
12 0tt0bre 2021
“RACCAPRICCIO – UN ANNO DOPO”: LO STRUGGENTE ULTIMO ATTO DI ALBERTO ASTORRI E PAOLA TINTINELLI
di Alessandro Bizzotto
“Noi vogliamo, per quel fuoco che ci arde nel cervello, tuffarci nell’abisso, Inferno o Cielo, non importa. Giù nell’Ignoto per trovarvi del nuovo.” Charles Baudelaire
Trovo che queste parole esprimano, meglio di ogni altre, lo spirito che da sempre anima questa coppia leggendaria. Con “Raccapriccio” Alberto Astorri e Paola Tintinelli riprendono, e da immensi artisti quali sono stravolgono, il loro destabilizzante lavoro sul tema della censura incentrato su “I fiori del male” di Charles Baudelaire presentato un anno fa alla Biennale Teatro. Lo fanno, come da loro solito, in maniera assoluta e radicale, dichiarando la loro decisione di autocensurare per sempre sé stessi e soprattutto la nostra speranza di vederli in scena insieme.
Ebbene sì: è anche e forse soprattutto la morte di questa coppia artistica ormai leggendaria che si celebra qui, nel luogo che forse più li rappresenta (il Teatro della Contraddizione di Milano). Parlare del contenuto artistico, come sempre sublime, di quest’ultimo lavoro sarebbe voler raccontare “altro”, distrarci rispetto a ciò che come spettatori non abbiamo potuto fare a meno di fare per tutto il tempo dello spettacolo: “succhiare” per un’ultima volta tutto il “Teatro” che Astorri Tintinelli ci regalano con questo struggente canto del cigno. Chi li conosce e li ama non riesce a guardare a questa coppia di pennuti incapaci di volare, impegnati in una recita che non vogliono o in realtà non possono portare a termine, senza che la mente corra al ricordo di tutto ciò che questi due artisti così speciali ci hanno regalato attraverso i loro spettacoli.
“Ho più ricordi che se avessi mille anni”, scrive Baudelaire.
E così anche noi. Grazie a loro.
Estremi fino all’ultimo loro atto, i due distruggono in scena anche “l’uovo” della speranza che come spettatori, amandoli, vorremmo disperatamente covare, cioè che questa “piccola morte” racchiuda invece in sé l’anticipazione di una nuova creatura artistica comune.
“La pendola dai funebri rintocchi suonava mezzogiorno brutalmente e sul lugubre mondo intorpidito versava tenebre il cielo”, scrive Baudelaire: e una campana suona rintocchi vuoti, morti, sulla scena. Ridiamo anche, come in altri loro spettacoli. Ma questa volta è diverso, come tutto è diverso: “Assai più che la Vita | è la Morte a tenerci sovente con lacci sottili.“ Così comprendiamo, e finalmente “vediamo” il senso delle parole del poeta che ispira lo spettacolo scelto per questo commiato:
“Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, una luce diurna più triste della notte; quando la terra è trasformata in umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti; quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d’un grande carcere, e un popolo muto d’infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti, senza patria, che si mettono a gemere, ostinati. E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima, vinta; la Speranza, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato, il suo nero vessillo.“
Questo è ciò che si è celebrato, questa volta; e di null’altro, questa volta, riusciremmo, con Raccapriccio, a parlarvi: “O Morte, vecchio capitano, è tempo, leviamo l’ancora. Questa terra ci annoia, Morte. Salpiamo.“
8 ottobre 2021
“Raccapriccio. Un anno dopo”
di Danilo Caravà
Guardare ed ascoltare uno spettacolo di Alberto Astorri e Paola Tintinelli è prima di tutto un’esperienza esistenziale, è la tridimensionalizzazione dell’aforisma di Cioran “vivere è perdere terreno”. E questi due interpreti,. che immaginano un testo scenico al di là di Beckett, al di là dell’ultimo orizzonte di dicibilità, dove la parola è a un passo da diventare urlo, e la preghiera ondeggiante davanti al muro della contemporaneità è a meno di un passo da diventare una testata, nel ridotto di resistenza del loro palmo di terra scenico nell’accogliente ambiente amniotico del Teatro della Contraddizione, gettano le loro pietre fonetiche in platea, e financo la stampella totiana di uno struggente amour fou per il teatro. Stavolta porgono agli spettatori i fiori del male baudelairiani, facendone sentire prima di tutti le spine, il dolore, lo strappo, dal quale nasce la poesia. Nel gioco serio, doloroso, meta teatrale, in cui i due fingono pessoanamente di essere attori, e sentire il dolore che davvero sentono, interpretano due volatili, due ideali albatros presi in prestito dal famoso carme del poeta francese, con un’apertura alare maestosa, adatta ad un volo artistico. Sono costretti, però, a caracollare sul terreno di una realtà in cui i giganti pirandelliani si sono fatti nani, e le ballerine non hanno più nemmeno un varietà in cui stordirsi e stordirci.
Si ride, certo, ma si sente anche distintamente il suono fesso, stonato di una campana che mostra la scomoda “veritade ascosa sotto bella menzogna”, ossia quella di un teatro che pratica un ideale seppuku, e ci mostra la viscerale onestà della sua anima, che ancora impavidamente cerca la poleis alla quale donarsi, cerca la catarsi con le unghie e con i denti. Astorri nei panni femminili, al di là delle identità dei generi, e nietzschianamente al di là del bene e del male, trasforma i suoi tacchi, negli ultimi possibili coturni, comprati al discount del “raccapriccio”, e adatti per alzare convintamente i pugni prometeici, mentre l’aquila del teatrino d’evasione gli mangia il fegato. E’ la sua voce che si sente, ritagliata esattamente del peso della libbra di carne del “mercante della Biennale di Venezia”, il più possibile vicino al cuore. Si ha l’impressione che da un momento all’altro si possa ascoltare la voce del padre pirandelliano che grida “verità, signori, non finzione”. E mentre sanguina anima da tutte le ferite che si provoca per farsi tutto corpo di poesia, tiene il teschio di un volatile, versione zoomorfa di quello di Yorick, e si gioca il suo personalissimo “essere o non essere”, alla luce di un faro in cui cartesianamente dirsi e trovarsi ancora attore.
Paola Tintinelli, prega, ma prega nel modo in cui sa fare lei, prega con la carne, con i grumi di voce, con il copricapo di un piatto di batteria ed un bastone sembra un monaco giapponese, che ci offre la speranza di un’illuminazione diversa da quella degli spot. Sono due clown tragici, sono quella dolorosa risata liberatoria che precede l’ite missa est. E la speranza va uccisa perché possa rinascere dalle sue ceneri, e l’uovo, fatale come quello di Bulgakov, non importa che sia distrutto, perché si potrà beckettianamente fallire ancora, fallire meglio. Dietro i meravigliosi tempi comici, dietro i lazzi, dietro la tragicommedia dell’arte c’è, ed in questo lavoro appare ancora più distintamente, il meccanismo stesso che anima la tragedia da sempre, la curva esistenziale della hybris e della dike. Tutto questo si traduce nell’eterno tentativo di superare se stessi, di trasumanare trasformando le parole in un’arma tagliente, più affilata del rasoio occamiano, in grado di tagliare la carne per fare apparire guizzi, lampi di anima che cerca ancora un cielo in cui potersi dire. Ma poi c’è la dike, la nemesi della divinità del consumo di massa, del tot al chilo, del divertimento che è un oppio ben più pericoloso e letale di quello evocato in scena, pronta a riempire di petrolio le ali e tutto il piumaggio di questi volatili, che hanno ancora i sapore del volo nella loro voce. Sono gli uccelli aristofaneschi, esiliati dalla loro città ideale su una terra su cui si fa fatica a camminare, figuriamoci a volare.
Qui si fa il Teatro con T maiuscola, quello dove Dioniso si fa dilaniare battuta dopo battuta, scena dopo scena, sera dopo sera, dal testo, per poi rinascere ogni volta. Qui si trascina ancora il carretto di Tespi, si tratta il palcoscenico come cosa salda, si chiama la carne con il proprio nome, e l’umano può lanciare il proprio grido di guerra verso l’impari ricerca del proprio senso, del proprio ubi consistam. E’ un finale di partita giocato anche oltre lo scacco matto, che vuole scuotere, vuole regalare ancora un brivido di vita al di qua e al di là della quarta parete. Da queste parti, sotto un sole scenografico, agognato quanto la luna del Caligola di Camus, ben oltre il sud del sud dei santi di beniana memoria, nella terra dei peccatori, dove si sono perse anche le coordinate geografiche, la vita vive, eccome se vive, è ha ancora a forza di alzare la voce, di esprimere, con estrema vivacità tutto il proprio “raccapriccio” per la deriva della futilità di questa nostra età contemporanea. Allora al posto di Godot si potrà attendere che l’uovo si schiuda, e possa nascere l’ultimo messia che pronunci roboticamente un nuovo fantascientifico ultimatum alla terra.
foto di Alessandro Angelelli